Capitolo X / Riportando tutto a casa

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«Ed? Siamo arrivati».
La voce di Giacomo rimbomba nell’abitacolo della Citroën raggiungendomi nel marasma di pensieri sconnessi. Sono sdraiato sul sedile posteriore, pallido e con due fasciature nel punto in cui il coltello ha penetrato il fianco e attorno alla spalla destra, a tenerla dove dovrebbe stare. Ho addosso dei jeans giganteschi trattenuti da una cintura e una polo blu, entrambi presi dal bagaglio che Giacomo ha portato dalla Germania. Non proprio discreto, insomma. Appena metto piede fuori dall’abitacolo rabbrividisco. Quanto mi manca la mia giacca.
Siamo nel parcheggio davanti alla stazione di Cuneo. L’entrata è un portone verde al termine di una scalinata stretto tra le insegne di un’edicola e di un bar. Il cielo è coperto di nuvole e la luce del sole, invece di illuminare i colori delle cose, li appiattisce.
Sono passati due giorni da quando Ester ha deciso di liberarsi dell’Incubus, due giorni che ho passato nel suo appartamento sdraiato sul divano, con una coperta e qualche vecchio cuscino. È stato Giacomo a raccontarmi come sono andate le cose: in queste quarantotto ore anche lui è rimasto da Ester. Quando l’Incubus è stato sconfitto si è risvegliato dallo stato di catalessi e si è trovato sdraiato sul parquet, con me riverso sanguinante ed Ester in stato confusionale. È stata lei a rattopparmi, dopo essersi ripresa. È poi toccato a me ragguagliare Giacomo su quel che è successo durante il suo, di blackout. Mi ha ascoltato senza dire nulla. Per non rischiare, ho evitato di parlargli del bacio in bocca alla vecchia mamma.
Giacomo insiste per accompagnarmi almeno fino all’entrata della stazione. Credo si senta in debito con me. Si è ripreso alla grande dallo shock emotivo; i sogni sono spariti ed è facile accorgersi dell’effetto positivo: con un paio di notti di vero riposo sulle spalle sembra già un uomo nuovo. Ester, poco ma sicuro, se la sta passando peggio. Non l’ho mai vista in questi giorni, Giacomo si occupava di entrambi; mi ha detto che è bloccata a letto dagli spasmi polmonari. Secondo lui, se qualcuno le tagliasse le vene, sanguinerebbe polvere. Stando a quel che dice le avrebbe fatto piacere esserci, per salutarmi, ma non sono sicuro di credergli. Sarà meglio che Ester si abitui agli addii affrontandone uno alla volta.
Saliamo la scalinata e ci fermiamo davanti al portone, incerti su cosa dire per salutarci. C’è un gran via vai attorno, gente di corsa diretta ai binari e gente ugualmente affrettata che esce dal portone e va verso la pensilina del bus.
«Hai tutto?» mi chiede lui.
«No, non ho niente. Quindi direi che è tutto a posto».
Lui annuisce con un sorrisetto.
«Grazie per la roba. I vestiti, dico» aggiungo, sperando di apparire sincero.
«Ci mancherebbe, puoi tenerli. Ehi… non hai bisogno di soldi?»
«Soldi?»
«Per il biglietto. L’andata per Torino sarà sui sei, sette euro… posso prestarteli».
«Oh no, lascia perdere».
«Guarda che lo faccio volentieri…»
«Ti sono già costato abbastanza, no?»
Lui annuisce di nuovo. «Sarai contento di rivedere Torino».
«Ti dirò… stavo cominciando ad abituarmi alla mancanza di case con più di tre piani. Tu che farai, invece?»
«Io… andrò da Ester. Non può stare da sola».
«Devi cercare qualcuno che ti dia una mano, con lei».
Lui non risponde subito. «Non lo so. La mia vita è da un’altra parte e io ed Ester ne abbiamo passate così tante… ma insomma, è mia madre, no? E tutti e due siamo quello che siamo, non quello che avremmo potuto essere».
Non aggiungiamo altro e dopo un silenzio imbarazzato ci stringiamo la mano. Poi Giacomo si allontana, lasciandomi da solo davanti alla porta della stazione. Lo seguo con lo sguardo mentre entra nella Citroën, lascia il parcheggio e si mischia alla miriade di altri mezzi che affollano la strada. Invece di entrare in stazione vado al bar. L’interno è piccolo e punteggiato da tavolini rotondi, tutti vuoti, e il bancone è uno striminzito rettangolo. Le pareti sono tappezzate di ritagli di giornale sulla squadra di calcio locale e dietro il bancone c’è un uomo sui sessanta con un grosso paio di occhiali sul naso. Sta sciacquando dei bicchieri e mi lancia un’occhiata quando mi richiudo la porta alle spalle.
«’giorno».
«’giorno».
«Un caffè. Normale».
L’uomo lascia il bicchiere e lo straccio, prende una tazzina e si gira verso la macchinetta alle sue spalle. Poi appoggia il caffè davanti a me, assieme a un cucchiaino.
«Grazie, Bruno» gli dico, cominciando a girare il caffè, l’acciaio che tintinna contro il contorno di ceramica. Lui alza lo sguardo e io pianto i miei occhi nei suoi.
Sì, credo proprio che me la caverò.

FINE


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