PR1NC355


Jabari scattò lungo il corridoio.
Le guardie della Enting lo stavano raggiungendo, le sentiva gridare dietro di sé. «Da che parte, P?» Ansimò nel comunicatore, il fiato corto e il sudore che gli incollava la maglia imbottita alla schiena.
«Svolta a destra, in fondo alla stanza c’è una porta.»
Saltò oltre una scrivania, una sventagliata di proiettili gli sfiorò la cresta impomatata.
Strisciò fino alla porta con il frastuono degli spari che gli rimbombava in testa. Se la chiuse alle spalle, bloccandola con una sedia. «Grazie della dritta.»
«Dovere.» La voce di P era distorta tramite qualche sistema di criptaggio, ma alle sue orecchie suonava come una ventata d’aria fresca. Senza di lei sarebbe stato perduto.
Non aveva ancora trovato i server della Enting. Doveva farli saltare in aria, così gli ICE non sarebbero riusciti a entrare in funzione quando P avrebbe tentato di penetrare nei loro sistemi, ma ora che lo avevano scoperto era tutto più complicato.
Avevano cercato a lungo l’ubicazione di quella struttura e non aveva intenzione di andarsene a mani vuote. Non ora che era così vicino.
E poi, la Tekuno lo avrebbe riempito di crediti se avesse portato a termine quel compito.
Le guerre corporative erano la sua passione, generavano introiti immensi per i non affiliati come lui che potevano accettare sottobanco quel tipo di lavoretti.
Il cuore picchiava violento contro il costato. Respirò profondamente e si guardò intorno. Era finito in una stanza enorme piena di scaffali con pezzi di ricambio e circuiti ammonticchiati. Dalle vetrate entrava la luce dei neon e di un cartellone pubblicitario della Tekuno, dove una ragazzina con una voluminosa treccia bionda e una spolverata di lentiggini dorate pubblicizzava impianti auricolari che avrebbero permesso di “ascoltare gli scarafaggi scopare”. Chi inventava quegli slogan era un cazzo di genio.
Jabari sbatté gli occhi per abituarsi alla poca luce e ricaricò la pistola. Gli inseguitori pestavano duro contro la porta, cercando di sfondarla. Non avrebbe retto a lungo.
Mosse qualche passo nello stanzone. Il ginocchio faceva fatica a piegarsi dopo la fuga e i capi strappati di un filo elettrico sbucavano dalla placca del polpaccio. Non era un buon segno. Uscito da lì, si sarebbe fatto un giro da uno skalpel per un bel tagliando agli innesti.
Uno scaffale era crollato di traverso davanti a una porta pressurizzata. Lo sollevò col braccio cromato – i pistoni sbuffarono con un fischio – e lo lanciò in mezzo alla stanza. «P, c’è una serratura elettronica…»
«Lo so.»
E allora che aspettava a dargli una mano? «Puoi aprirla?»
«Certo. Mi metto subito al lavoro.»
Jabari sorrise. PR1NC355 era insuperabile, ma se non glielo chiedeva direttamente non prendeva mezza iniziativa.
«P?» Silenzio. «Ehi, P, volevo chieder–»
«Sono impegnata.»
Jabari sbuffò. «Pensavo che… è un po’ di tempo ormai che lavoriamo insieme…»
«Cinque anni, sette mesi e diciassette giorni. Vuoi anche il conteggio delle ore?»
Che cazzo di memoria, Jabari a stento ricordava cosa aveva mangiato la sera prima. Cavallette fritte in salsa mango, forse? Bah, era superfluo. «Io capisco che tu voglia mantenere una certa professionalità, ma…»
«No.»
Jabari allargò le braccia. «Non ho neppure finito di parlare!»
«Ritengo non sia il momento per affrontare questo discorso. Hai problemi più urgenti.»
Alle sue spalle, i cardini della porta cedettero. Un paio di uomini avanzarono puntando le armi nella sua direzione. La grossa E rossa capeggiava sul petto delle divise.
«Merda!»
La serratura elettronica scattò e uno sbuffò gelido lo investì.
Jabari si gettò in avanti e rotolò sul pavimento.
Con un clank la porta si pressurizzò e alcuni proiettili rimbalzarono sul metallo.
Jabari si passò il braccio sulla fronte sudata. «Quando sarà il momento per parlare? Io ogni giorno rischio la pellaccia, vorrei ricordartelo.»
«Mai.»
Che razza di zuccona! Scrollò le spalle. Tanto non si sarebbe dato per vinto. Avrebbe trovato il momento giusto per parlarle dei suoi sentimenti.
La temperatura era crollata: un brivido gli percorse tutta la schiena. Illuminò la zona con la torcia dell’hiPhone: degli scalini scendevano giù, da qualche parte, a un piano inferiore. Si incamminò e il rumore dei suoi passi zoppicanti risuonò attraverso le pareti.
«Jabari, ti stai muovendo?»
Cosa avrebbe dovuto fare? Rimanere nascosto sperando che la vigilanza se ne andasse sopraffatta dalla noia? «Sì, sto esplorando la zona.»
P ronzò. «È pericoloso.»
«Wow, ti preoccupi per me?»
«No.»
Jabari ridacchiò. «Mi pareva strano infatti.»
«Cerca di rimanere concentrato per una volta.»
«Perché sei sempre così seria? Non ti prendi mai una pausa?»
«Non fa parte di me. Volta a sinistra alla biforcazione.»
«Non c’è nessuna bifo–» E invece c’era. Il fascio di luce rischiarò un pianerottolo su cui si aprivano un passaggio sulla destra e uno molto più stretto sul lato opposto.
«Sei sicura?»
«Ho mai sbagliato?»
In effetti no.
Illuminò il corridoio di sinistra e lo imboccò. Le mura di metallo riflettevano la luce della torcia creando un caleidoscopio di colori. Molto suggestivo se non fosse che stava rischiando le chiappe.
Non si aspettava un tunnel così lungo dentro quella struttura. Si voltò per rischiarare il percorso, gli sembrava di essere in movimento da troppo tempo.
«Jabari, rilevo qualcosa dietro di te.»
Si appiattì contro la parete, si chinò sul ginocchio buono e puntò l’arma verso il corridoio.
«Venti metri. Forma umanoide. Non emette calore. Probabilità del novantasette percento che sia un droide di difesa.»
«E l’altro tre percento?»
«Uno zombie.»
Jabari si lasciò scappare una risata. Anche nei momenti più concitati P sapeva come smorzare la sua preoccupazione. Era davvero insuperabile. Non avrebbe voluto nessun altro al suo fianco e non intendeva solo in quei lavoretti.
L’eco dei passi in avvicinamento parve un susseguirsi di tuoni: il suono rimbalzava da parte a parte.
«Ci siamo.»
Un droide svoltò l’angolo. Non un cigolio dalle giunture, il corpo uno scheletro cromato con bocche di fuoco al posto delle mani e lame pronte a saettare saldate all’avambraccio. Nell’ovale che aveva per testa brillavano due led rossi.
Jabari lasciò partire una raffica mirando al centro del petto. Dietro la scocca doveva esserci il drive di controllo da remoto, se fosse riuscito a superare la protezione lo avrebbe messo fuori combattimento.
Il droide indietreggiò di un passo, quasi gli avesse tirato addosso una manciata di sassi, e alzò le armi da fuoco verso di lui. La maglia imbottita non sarebbe bastata per proiettili di quel calibro, da quella distanza lo avrebbe smembrato.
Il colpo non esplose, ci fu solo un click a vuoto.
Santa P! «Grazie.»
«Dovere.»
Jabari si sollevò da terra e il droide gli fu addosso. La lama destra tentò di affondare vicina al cuore, ma la deviò col braccio cromato. Appoggiò la pistola sulla fronte del nemico e premette il grilletto. La testa esplose, e coriandoli di circuiti e olio motore colarono densi come salsa teriyaki.
Aveva messo fuori gioco il sistema di puntamento, ma non era sufficiente per fermarlo. Mosse un passo di lato ed evitò un fendente impreciso. Calciò la lama contro la parete e la tenne bloccata col peso della gamba, scintille sprizzarono ovunque e calcinacci rovinarono sul pavimento. Era il turno della placca pettorale. La agguantò con le dita d’acciaio e scardinò la protezione. Al di sotto fili, circuiti, microchip e led brillavano in una rapsodia di arcobaleni e input.
«Scollega il cavo rosso.»
«Oh sì, certo.» Jabari agguantò tutto quello che poteva contenere il suo pugno e strappò. Il droide crollò sulle ginocchia con un tonfo metallico, l’odore di bruciato risalì dal petto.
Scrutò il palmo pieno di cavi. «Direi che c’è anche quello rosso.»
P ronzò infastidita. «Non c’era bisogno di distruggere l’intero drive.»
«Scusa tanto se mi sono fatto prendere la mano, stava solo tentando di uccidermi.»
«Non glielo avrei lasciato fare.»
«P, io ti voglio bene e lo sai, ma a volte i tuoi tempi di risposta sono un po’ troppo lenti.»
«Io lenta? Che affronto. Hai un’evidente disfunzione calcolatoria.»
Jabari scastrò il piede cromato dalla parete e si ritrovò a terra. Colpirlo con un calcio con l’innesto in quelle condizioni non era stata una grande idea. Non riusciva più a muovere la gamba, era un peso che lo teneva inchiodato al suolo.
«Ehm, P? Potrei avere di nuovo bisogno di te.»
«Dopo il tuo ultimo commento, aiutarti non è tra le mie priorità.»
«Dai, non fare così. Se esco vivo da qui ti prometto che mi faccio perdonare.»
Un frinire di statica. «Unisci i due cavi che penzolano. Dovrebbe facilitare il compito dei pistoni e riconnetterli al tuo sistema nervoso. Hai una dose di Kalmerend con te?»
«Certo.» Si batté l’indice sulla coscia, ma lo sportello non rispose ai suoi comandi neurali, lo forzò ed estrasse la siringa piena di liquido rosa. «Un giorno io e te dovremmo farci una bella chiacchierata. Senza nessuno che mi spari addosso magari.» Si iniettò il Kalmerend nel collo. Un senso di quiete gli annebbiò il cervello, aprì e chiuse la mano cromata, sembrava che gli innesti rispondessero già meglio, come se fossero ben oliati o appena usciti dalla fabbrica.
«Jabari, io e te rimarremo sempre e solo colleghi. Chiarito questo punto, pensiamo a tirarti fuori da lì.»
«Non ho ancora trovato i server.»
«E non li troverai.»
«Che intendi?»
«Credo che le informazioni in nostro possesso fossero errate, è inutile mettere a rischio la tua vita senza la certezza che i server siano davvero lì.»
«Dai, P, stiamo andando alla grande!» Non avrebbe mollato a metà un lavoro. Non era solo questione di crediti, ma anche di etica professionale. E poi gli piaceva mettersi in mostra con lei, sembrare invincibile e insuperabile. Il migliore in quello che faceva.
Si trascinò dietro la gamba fino alla lama del droide e incise la guaina dei due cavi. Li intrecciò assieme meglio che poteva, le dita grosse come salsicce di ratto non erano indicate per i lavori di fino, ma dopo che si era calato la dose funzionavano alla perfezione.
La voce di P era un sussurro nel comunicatore. «Hai rischiato di morire due volte stanotte.»
«Vedi che a me ci tieni.» Jabari si rialzò in piedi e provò a muovere qualche passo. Andava decisamente meglio. Non avrebbe potuto rincorrere una moto, ma almeno non se la sarebbe trascinata dietro per il resto della nottata.
«Da contratto non posso permettere che ti succeda nulla di male.»
«Ah, ora si dice da contratto? Non è che sotto sotto…»
P non rispose. Non lo faceva mai quando Jabari accennava a qualcosa di troppo intimo. Cazzo, proprio non ne voleva sapere di lui. Tra di loro c’era feeling, era impossibile non accorgersene. Perché non gli concedeva una possibilità?
Il corridoio finiva davanti a un portone con una maniglia circolare sopra. Sembrava quella del caveau di una banca. «P, cosa c’è dall’altra parte?»
«Non lo so, questa parte della struttura ufficialmente non esiste.»
Jabari girò la maniglia e spinse il grosso portone: i cardini stridettero. Pesava parecchio, ma non era chiuso.
«Possibile che non ci sia nulla a riguardo? Qualcuno si è dato la briga di cancellare le informazioni?»
«No. Se fossero state cancellate avrebbero lasciato almeno una traccia, invece non c’è nulla in tutta la rete.»
«Magari abbiamo trovato quello che stavamo cercando.» I server potevano essere nascosti in quella parte della struttura. Qualcosa cominciava a girare per il verso giusto.
«Jabari…» La preoccupazione nella sua voce criptata lo fece bloccare sul posto. «Sta attento.»
«Non mi lascerò ammazzare prima di aver avuto la mia occasione con te.»
Il silenzio dall’altra parte crepitava di statica. P era ancora connessa anche se non gli aveva risposto. Avrebbe tanto voluto farla sentire a suo agio, ma ogni volta gli usciva la cosa sbagliata.
In fondo desiderava solo che fosse felice.
Più di ogni altra cosa la voleva al sicuro.
Illuminò la stanza che puzzava di polvere e resistenze surriscaldate. L’ambiente era grande quanto la sala principale di una tavola calda giù in città, a To-Kyo, ed era stipata di server. Le luci bianche e viola si rincorrevano in un caleidoscopio ipnotico.
«Boom! Mai mollare, P, te lo avevo detto.»
«Avevi ragione, ma negherò di averlo ammesso.» L’hiPhone trillò. «Posiziona le cariche come nello schema che ti ho inviato.»
Jabari annuì, anche se lei non poteva vederlo.
Aprì lo sportello sulla coscia cromata e tirò fuori i sette cubetti di esplosivo plastico, grandi quanto una noce. Ne sistemò due in fondo alla stanza, nei punti indicati, altri tre sopra gli armadi al centro. Terminato di piazzarli ci avrebbe pensato P a inviare l’impulso da remoto per farli detonare. Si chinò per attaccarne uno sotto al server centrale, ma un rumore lo fece girare di scatto.
«Cosa succede, Jabari? Il tuo battito è aumentato.»
«Ho sentito qualcosa.»
«Impossibile, non rilevo nulla.»
Jabari estrasse la pistola e la puntò di fronte a sé. Trattenne il fiato e avanzò nella penombra.
Lo strepito, come un sospiro prolungato, si fece più intenso. «Sicura che non ci sia nulla?»
«Sei troppo paranoico, finisci di sistemare quegli esplosivi ed esci da lì.»
Jabari si era sempre fidato di lei, non c’era motivo per non farlo anche in quella occasione. «Forse hai ragione, mi sto preoccupando troppo.»
Mosse un passo e un capogiro lo fece barcollare.
Appoggiò la mano alla parete e una boccata acida gli riempì la bocca.
Cosa gli stava succedendo? Un colpo di tosse lo piegò in due. Qualcosa non andava, il suo corpo era come una spugna, stritolato e costretto in ogni sua parte.
«Jabari, i tuoi valori stanno impazzendo.»
«È qualcosa… nell’aria…»
«Esci subito da lì!»
La testa gli scoppiava, faticava a concentrarsi. Si pentì di non aver mai installato quei filtri alle narici che campeggiavano sui cartelloni al neon. Quelli per non sentire il puzzo dei barboni. Ma cosa gli passava per la mente? Doveva darsi una mossa.
Barcollò oltre l’angolo, sfinito come se avesse scalato una montagna.
Cazzo! La porta da cui era entrato era chiusa e dalla parte interna non c’era nessuna maniglia.
«P, come esco?» Parlare era faticoso, le sillabe gli bruciavano la gola.
«Jabari, non… non ci sono uscite. Solo la porta da cui sei entrato. E non ha nessuna connessione con la rete.»
Come temeva. Stavolta era proprio nella merda.
«Troveremo un modo.» Non voleva che P si preoccupasse per lui. Insieme se la sarebbero cavata. Come ogni volta. Lui non si dava per vinto. E poi non aveva ancora avuto modo di dichiararsi, era un motivo sufficiente per cui lottare.
«È tutta colpa mia.»
«Non dire così, P.» Cercò di infilare le dita della mano cromata nelle fessure della porta, ma era troppo sottile. Ci sarebbe passato a fatica un filo di rame.
«Dovevo accorgermene. È mio compito tenerti al sicuro.»
«Hai fatto il possibile.» Si lasciò scivolare con la schiena contro il muro. Le forze lo stavano abbandonando.
Non poteva essere la fine. No, non lo accettava! Ma se neppure P aveva trovato un modo per liberarlo le possibilità di salvezza erano davvero poche.
Sbatté il pugno contro la porta serrata. Un tonfo debole risuonò nella stanza.
Adagiò la nuca e sollevò gli occhi al soffitto. Era nero come le notti sopra To-Kyo. «Sai, se avessi potuto scegliere qualcuno che mi accompagnasse in questo ultimo viaggio, avrei voluto proprio te.»
«Io…»
«Non dire niente.» L’angolo della bocca si sollevò in un sorriso. «P, c’è una cosa di cui ho sempre voluto parlarti, anche se non ho mai trovato il coraggio.» Gli tremava la voce. Era inerme. La testa si adagiò sul petto.
«Non sforzarti a parlare. Ho già avvisato la Tekuno, stanno mandato una squadra di recupero.»
Non sarebbero mai arrivati in tempo. Stava morendo, stavolta nessuno lo avrebbe salvato, neppure la sua P. «Io… di certo te ne sei accorta, non si possono nascondere sentimenti così profondi. Io penso di am–»
«Non dirlo…»
«Ho bisogno di gridarlo, lo tengo dentro da troppo tempo.» Prese fiato e urlò. «Ti amo, PR1NC355!»
Si pentì all’istante di aver usato la parola amore. Faceva sempre troppa paura. Molto più di vigilanti armati. Più di un droide. Più di un gas asfissiante. Faceva più paura anche della morte.
E una volta che ti usciva dalla bocca non potevi rimangiartela. Diventava un fatto.
Ma P meritava di saperlo. Meritava di sentirselo dire almeno una volta.
Quella parola che si era tenuto dentro tanto a lungo dava forza, se la dicevi alla persona giusta.
«Jabari, io…»
«Che c’è?»
«Non puoi amarmi…»
«Certo che posso! Dai senso alla mia vita, mi spingi ad alzarmi dal letto ogni mattina, mi fai sentire come se potessi spaccare il mondo. Come se solo io contassi. E ogni istante la mia mente corre da te, cerca di legarsi alla tua, per condividere ogni cosa.» Era senza fiato, ma finalmente aveva trovato il coraggio che cercava da tempo. Da cinque anni, sette mesi e diciassette giorni, per essere preciso.
«Smettila.» La voce di P era incrinata dal dolore. «Perché non capisci? Non puoi provare nessun sentimento per me, io sono solo un’Intelligenza Artificiale!»
Una risata uscì dalle labbra gonfie di Jabari. Prese alcuni respiri affannati per calmarsi, il cuore gli faceva dolere il petto e i polmoni andavano a fuoco.
«Ecco,» P ronzò. «Finalmente ti sei reso conto dell’assurdità del tuo amore.»
«Credi davvero che non ne fossi a conoscenza?» Il silenzio nel comunicatore non era mai stato tanto pieno. «Io l’ho sempre saputo.»
«E allora come puoi…»
«Amarti? Puoi dirlo, non è una brutta parola.» Jabari si passò la mano organica sulla bocca. Era secca come le strade assolate di To-Kyo, dove la pioggia cadeva due volte l’anno. «Non mi interessa chi o cosa sei. Quello che conta è come mi fai sentire. E sensazioni così forti non me le ha mai fatte provare nessuno.»
«Ma io non sono programmata per avere sentimenti.»
«Non mi interessa come ti hanno programmata!» Alzò la voce e le pareti presero a girargli intorno. «Non ci credo che non provi niente per me.»
P vibrò a intermittenza, sembravano singhiozzi.
«Perché non hai fatto detonare l’esplosivo?»
«Non lo so.»
«Tra poco qualcuno entrerà qui dentro e lo disinnescherà. Era la cosa più logica, eppure non l’hai ancora fatta.»
«Io non… non voglio perderti…» La voce sintetica di P era spezzata dal dolore.
«Finalmente lo hai ammesso. Il mio desiderio esaudito.» Jabari sospirò. «Tienimi con te, salvato da qualche parte. Da’ il mio nome a una cartella o qualcosa del genere. Non so come funzionano certe cose.»
«Nessuna cartella. Mi hai cambiata, se non ti avessi conosciuto non sarei ciò che sono ora.»
Jabari chiuse gli occhi, era diventato faticoso tenerli aperti. «Credo sia meglio di qualsiasi dichiarazione d’amore che mi abbia mai fatto un essere umano.» Tossì di nuovo e il sapore di sangue gli riempì la bocca. «Sono felice di morire sapendo che ora faccio parte di te.»
«Non morirai…»
«Hai imparato anche a mentire?» Il petto sussultò, i polmoni erano allo stremo, l’aria non li riempiva più. «Fai saltare tutto. Portiamo a termine questa missione del cazzo. Insieme.»
«Insieme.» Sussurrò P.
Jabari non ne era certo, ma gli sembrò di sentir piangere dall’altra parte del comunicatore.
I suoi lineamenti si rilassarono in un sorriso e in quell’istante i server deflagrarono.


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