Capitolo I / Qualunque idiota potrebbe farla

di Simone Giraudi.


Ad Antonio e Maddalena,
senza i cui ricordi niente di tutto questo sarebbe stato possibile.

«Capisci? Ha pagato tutto in anticipo» dico sbuffando, sdraiato sul sedile posteriore del taxi, un ammasso grigio in cui le essenze degli Arbre-Magique si sono fuse al sudore dei passeggeri, in un aroma simile a quello dell’uva marcia.
L’omone alla guida risponde mugugnando qualcosa ma le sue parole impastate si perdono nel suono delle ruote che, fuori dai finestrini, mangiano l’asfalto dell’A33. L’ho beccato questa mattina in piazza della Gran Madre, non ho ancora capito se all’inizio o alla fine di un turno. Mi è servito un intero quarto d’ora per convincerlo ad accompagnarmi così tanto fuori città, facendo leva sulla possibilità di intascare un extra non previsto. In tutto il viaggio non mi ha mai rivolto la parola, tranne per chiedermi quello che mi chiedono sempre tutti: ‘Sei davvero quel tizio che scaccia i fantasmi?’.
Non so perché gli ho raccontato di quest’ultimo caso. Forse ho solo voglia di lamentarmi con qualcuno.
Mi sistemo su un fianco, rivolto verso lo schienale del sedile posteriore. Da quando abbiamo lasciato Torino ho cambiato diverse posizioni, senza trovarne una comoda. Sto di merda, non solo in senso spaziale. I jeans, la giacca di velluto a coste e la maglia a girocollo bianca non hanno macchie o buchi recenti, e sotto la pelata ho la solita espressione infastidita, ma ho l’ansia. Un topo che zampetta nel sistema circolatorio. E non solo perché non mi piace lavorare fuori città, ma perché questo lavoro puzza di perdita di tempo. La prossima volta che un cliente mi chiede un incontro a novanta chilometri da casa lo mando a ‘fanculo. Ma la verità è che nemmeno me la ricordo l’ultima volta in cui non ho dovuto telefonare a qualcuno per il saldo della parcella.
Alla destra del taxi lungo la carreggiata scorre l’uscita “Cuneo Est”. L’omone al volante, senza dar segno di voler rallentare, svolta e io per poco non scivolo dal sedile del passeggero. «Mancano quindici chilometri a Poràgneve» mi dice, questa volta in maniera perfettamente comprensibile.
No, nemmeno io avevo idea esistesse un posto con un nome così assurdo. Poràgneve. Secondo Wikipedia si tratta di un paesino a un’ora dal confine con la Francia senza una vera e propria storia di cui valga la pena parlare dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Lo occupano cinquemila anime, che mi aspetto siano bendisposte con un tizio strambo che arriva da fuori come me quanto cani da pastore con un lupo solitario. Ma se tutto va come non lascerò loro molte occasioni per guardarmi di sbieco.
In ogni caso l’omone al volante mi ha avvertito solo per ricordarmi che dovrò pagarla, questa corsa straordinaria. D’altronde ‘quel tizio che scaccia i fantasmi’ non sembra il più affidabile dei clienti. Ma come posso spiegare in modo più efficace cosa fa un investigatore occulto? Forse potevo usare l’esempio della nonna morta, almeno con lui: tutti la sognano, ma se comincia a spostarvi i soprammobili allora è me che dovete chiamare.
Non sono uno da “salviamo il mondo”, chiariamoci. Voglio solo aiutarvi, più che altro perché in pochi sembrano avere voglia di farlo: di investigatori occulti ce ne sono un paio in Inghilterra, altri negli Stati Uniti e una manciata nel resto del mondo. Spero se la passino meglio di me.
«Quanto?» dico a voce alta, interpellando l’omone al volante.
«Centocinquanta, andata e ritorno».
Non abbiamo concordato il prezzo alla partenza, e in tutto il viaggio lui non ha acceso il tassametro. Avrebbe potuto spararla più alta.
«Dovresti aspettare un po’. Potrei metterci poco» aggiungo.
L’omone non risponde subito. Forse è consumato dalle domande sul mio lavoro, per lui dev’essere strano immaginare che l’universo vada oltre le portiere ammaccate del suo vecchio taxi. Ma è più probabile che abbia solo finito la riserva di bestemmie silenziose: è chiaro che vorrebbe scaricarmi e tornare a casa il prima possibile.
«Con duecento aspetto quanto vuoi» dice l’omone, senza entusiasmo.
Lasciata l’autostrada il taxi entra in un dedalo di stradine e aree industriali che si alternano a campi coltivati e a grosse ville. Superiamo una grande rotonda e una Statale in salita, il muso della macchina punta verso una montagna dalla cima spezzata in due, inframmezzata da nuvolette. Il cielo è sereno e la temperatura, fuori, sembra soltanto simile a quella che dovrebbe esserci in un qualunque febbraio.
Un cartello blu riporta il nome di Poràgneve. Le ville si fanno più rade e poi si apre un’area verde chiusa da una staccionata, costellata di panche e tavoli di legno. Dentro, c’è solo una persona.
Faccio segno all’omone di fermarsi e per la prima volta il taxi rallenta sul serio, fino a bloccarsi all’entrata dell’area verde dietro a una Citroën tirata a lucido. L’autoradio è accesa su una qualche innominata frequenza, il volume a un livello udibile soltanto dai possessori di biosonar: Blue di Angie Hart, e si fa avanti il ricordo una puntata di Buffy – L’ammazzavampiri.
Mi è sempre piaciuto Buffy. Somiglia alla mia vita, se fosse scritta da qualcuno con del senso dell’umorismo.
«Allora duecentoventi?» chiede l’omone, ancor prima che possa scendere dal taxi.
Mi sgranchisco la schiena e poi frugo in una delle tasche interne della giacca, il freddo che mi sferza le mani, il collo e il volto. Prendo tre carte da Ramino spiegazzate e gliele porgo attraverso il finestrino guardandolo dritto negli occhi. Non potrebbe staccare le sue pupille dalle mie nemmeno se se le cavasse. «Tieni pure il resto» gli dico.
L’omone prende le carte e le butta nel porta oggetti senza troppa cura, come se ad attendere un secondo di più rischiasse di vedersele sparire dalle mani.


Simone Giraudi è un giornalista e vive a Peveragno (CN). Adora raccontare e farsi raccontare storie, il cioccolato fondente e David Hasselhoff. Ha frequentato il corso di sceneggiatura alla Scuola Internazionale di Comics di Torino.
Scrive dal 2012: ha autopubblicato due libri (una raccolta di racconti horror e un racconto lungo di fantascienza) e nel 2017, con Leucotea Edizioni, il romanzo “Tatuaggi Color Pelle”. Dal 2018 scrive per lo più racconti; si possono trovare nelle raccolte di fantascienza “Prisma” e “HUMAN/” (entrambi Moscabianca edizioni) e sulle riviste Spore, Salmace, Blam, Quaerere, Enne2Rivista e Altri Animali. Un suo racconto è menzione speciale nel concorso ‘Da un’illustrazione a una storia’, realizzato da Rivista Blam assieme ad Antonio Pronostico.

Immagine: Claudia Corso (@aetnensis), 1997, illustratrice, viaggia nello spazio e nel tempo libero studia Arti Visive a Bologna. Le piacciono i robot, la fantascienza e gli abbinamenti di colori improbabili.

9 pensieri riguardo “Capitolo I / Qualunque idiota potrebbe farla

Lascia un commento