Capitolo IX / Contro il muro

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Tossisco e mi trascino fino al divano, sedendomi e lasciando sul parquet una scia di sangue. In tutto questo l’Incubus mi guarda da vicino all’entrata, con il coltello in mano. È assurdo che sia riuscito a prendere possesso del corpo di Ester; è una creatura fisica, o almeno lo era sino a qualche minuto fa, dovrebbe non poterlo fare.
«Un coltello nel fianco tendo a non ignorarlo, ma se avevi voglia di continuare a parlare avresti potuto dirmelo in piazza» tossisco.
«Parlare? Brutta idea, tra qualche minuto…»
«… sarò morto. Lo so. Allora, vuoi dirmi come hai fatto?».
«Davvero non hai capito? Senzanome, io posso fare quello che voglio!»
Ride, in un modo sguaiato e disumano, e mi si avvicina scavalcando il corpo di Giacomo. Lo guardo e non riesco a capire se respira ancora. Deve esserci qualche tipo di shock emotivo, dietro il suo stato.
«Ero spaventato dopo l’incontro sulla collina. Ma mi hai ricordato del frammento dentro il ragazzo e ho capito cosa avrei potuto tentare di fare: ho sempre avuto l’intenzione di lasciarti distruggere il mio corpo, e con un secondo d’anticipo ho trasferito la mia intera coscienza qui dentro, compreso il frammento dentro il ragazzo. Sono diventato pura forza emotiva, qualcosa che nessun altro della mia razza ha mai potuto essere»
«Che dire, tu ed Ester siete proprio una bella coppia».
«Siamo uniti più di quanto lei lo sia mai stata con chiunque. Senza di lei non sarei mai diventato così forte, così… esteso. Non mi ha solo donato l’orrore di quei trenta morti ma, negli anni, il suo intero essere. Nutrimento continuo per una vita intera».
«La pacchia non durerà ancora per molto – dico – . Prima o poi la malattia sarà più forte anche di te».
L’Incubus scaccia le mie parole con un gesto della mano e alza lentamente la lama del coltello. «Ti consiglio di calmarti, Senzanome. Credo non manchi molto».
«Davvero non ti preoccupa il cancro?»
«Ora che sono solo un groviglio di emozioni niente mi preoccupa. Posso sempre spostarmi nel ragazzo, se serve. Meglio che morire dissanguato su u vecchio divano, no?»
Digrignando i denti rotolo sul fianco ferito mentre l’Incubus abbassa il braccio e la lama taglia l’imbottitura del divano come se non esistesse. Mi lancio addosso a Ester. Cerco di toglierle il coltello, ma è un tentativo disperato: non saprei come procedere oltre. Lottiamo, in piedi tra il tavolino e il divano, fino a quando l’Incubus mi afferra la mascella. Il braccio scatta, io supero di volata il divano e mi schianto contro la parete colpendo un quadro. Il dolore esplode dal fianco e dalla spalla lussata, la testa minaccia di aprirsi in due. Sento la fronte fradicia di sudore e la vista è un insieme di macchie indistinte.
«Ester…» sussurro, senza convinzione.
«Oh, no. Ci sono solo io qui».
Non è vero. Non c’è traccia di Ester nel suo corpo, adesso, questo sì. Ma ha passato decenni da sola in questa casa e non è possibile che tra queste pareti non sia rimasta una sua traccia psico-emotiva, anche flebile.
L’Incubus si avvicina, giocherellando con il coltello. Afferro i resti del quadro che si è staccato dalla parete, afferro la fotografia in bianco e nero e la punto verso di lui. L’Incubus si china e mi prende per la nuca.
«E dai, Ester, vieni fuori!»
In un attimo, il ghigno terrificante sul volto della vecchia donna scompare, sostituito da una smorfia spaventata. Il viola delle pupille comincia a traballare. L’Incubus si guarda attorno, boccheggiando.
«Ester!» urlo, con tutta la forza a mia disposizione.
Lei sbarra gli occhi, adesso del verde marcio originale. Lascio la fotografia e l’afferro per i capelli biondicci, tirandola verso di me, stampandole sulle labbra un bacio. D’improvviso tutto il mondo si disintegra in una luce bianca purissima.

Con la guancia colpisco il mare di granelli di sabbia ed è come mi fossi gettato sul cemento. Poi, impiegandoci quelli che mi sembrano secoli, mi alzo. Davanti a me si staglia il deserto apocalittico della sfera emotiva di Ester, e devo ripetermelo più volte perché faccio fatica persino io ad accorgermene. Questo luogo è diverso da come dovrebbe essere, da com’era quello di Giacomo. Prima di tutto, i granelli di sabbia sono viola scuro e non argento. Il cielo è un indistinto sfondo nero come il terriccio bagnato, senza il solito sole opaco e squassato da fulmini bianchi, nessuno dei quali annunciato da rombi di tuono. L’unica cosa che riconosco è il Muro, che si staglia all’orizzonte nella sua solita posizione. M’incammino per raggiungerlo, muovendo lentamente un passo dopo l’altro come fossi più pesante del normale, anche se in questa forma ipotetica ho tutte e due le braccia funzionanti e il fianco libero da qualunque ferita. Il luogo stesso mi rallenta, agisce contro di me; l’Incubus, qui, è ovunque ma non può agire in alcun modo. Sono troppo dentro.
Quando arrivo davanti al Muro noto che, anche lui, è molto diverso. È un blocco bianco sporco senza scanalature, i vari ricordi non si vedono nemmeno, un gigantesco pannello che sembra spuntato fuori tutto in una volta dalla sabbia. Si vedono, però, delle figure muoversi sulla superficie, persone impegnate a fuggire a gambe levate e altre alle loro spalle, con le armi spianate. Scorgo in lontananza una ragazzina bionda e non molto alta, addosso un vestito impolverato pieno di toppe. È seduta per terra a gambe incrociate a qualche metro dal Muro, mi guarda con le guance rigate dalle lacrime.
«Eccoti, cazzo» le dico avvicinandomi.
Da vicino mi rendo conto che Ester non è anisocorica. È la stessa ragazzina che ho visto toccando la traccia emotiva dell’Incubus, la versione più felice di sé che Ester riesca a ricordarsi. Forse l’unica.
«Scusami per la coltellata» mi dice lei.
Le siedo vicino. «Lascia perdere. Mi vanterò della ferita alla prossima convention di investigatori scarsissimi».
«Niente “scusami per la tua vecchia fotografia”?»
«Non stiamo parlando di me, qui».
Rimaniamo un po’ in silenzio, a guardare la superficie del Muro. Mi schiarisco la voce. «Allora… i nazi. Che è successo?»
«Sono arrivati, hanno preso trenta uomini a caso e li hanno uccisi. Poi hanno schedato gli altri, perquisito e incendiato qualche casa e se ne sono andati. Solo allora, verso sera, abbiamo potuto seppellire i corpi».
«Vi hanno impedito di seppellirli prima?»
«Sì. Ogni nazista era convinto di valere dieci di noi, ribelli o civili non faceva differenza».
«Mi spiace».
«Dispiace a me. Ricordo quel che mi ha detto l’Incubus quando l’ho incontrato, sai? Mi ha parlato di sollievo. E ha continuato a farlo in tutti questi anni. Ma ho sempre continuato a chiedermi di chi sia stata, davvero, la colpa».
Negli anni si è mai capito?»
Ester scrolla le spalle. «Si è detto che giorni prima del massacro i ribelli avessero fatto sparire tre tedeschi. Molti pensano sia per questo, ma chi lo sa».
«Non sembrava male l’offerta dell’Incubus. Non so quanto dovresti fartene una colpa» le dico dopo un’eternità di tempo che, visto dove siamo, potrebbe anche essere passata sul serio. Lo penso davvero, comunque. Il dolore spinge verso qualunque via d’uscita accessibile, come il principio di un incendio.
«Guarda dove mi ha portata. Dove ha portato Giacomo, e suo padre».
«Avevi tredici anni…»
«Più lo davo all’Incubus e più il dolore continuava a crescere, senza fermarsi. E io ero contenta. Era quello che desideravo».
«Che vuoi dire?»
«I caduti di Poràgneve nella Grande Guerra sono centouno e centocinquanta quelli della Seconda Guerra Mondiale. Oggi, della maggior parte di loro nessuno si ricorda. Le persone sono elastiche, sai? La vita le colpisce forte ma loro riescono a tornare alla normalità, o a una cosa che ci somiglia molto. Dieci anni dopo la guerra per chi non l’aveva vissuta era come non ci fosse mai stata. Credo sia per questo che non sono andata anche io al cimitero, la sera dell’eccidio. Non potevo sopportare che una spruzzata di terriccio concludesse tutto».
Ecco come l’Incubus è diventato “super”, come ha fatto a mantenere attivo il frammento dentro Giacomo. È stato fortunato, si è trovato nel posto giusto al momento giusto, settant’anni fa. Ester si è investita da sola del compito di trattenere il ricordo dell’eccidio, di diventare un monumento in onore ai “XXX Martiri”. E lui non ha fatto altro che sedersi dentro di lei e aspettare che lo stress e le emozioni negative incancrenite passassero.
«Senti, Ester, ho provato a risolvere il problema e ho rimediato un coltello in un fianco e una spalla lussata. Se tu non puoi farlo, allora nessuno può».
«Guarda il Muro, quell’unico ricordo annienta il resto. Che cosa dovrei fare? Affrontarlo, sapendo che oltre c’è solo nuovo dolore?»
«C’è sempre nuovo dolore. Ma c’è anche tuo figlio».
«Non c’è più tempo».
«Lo sai qual è il segreto più triste del dolore? Che ti fa sentire unico, ti fa credere che nessuno al mondo abbia mai provato qualcosa di simile. Non sei speciale, ma non sei nemmeno sola».
Ester mi osserva, in silenzio.
«Adesso che l’Incubus ha il controllo del tuo corpo potrà non sembrare ma sei ancora tu che comandi qui – continuo – . Il Muro, con ogni ricordo che contiene, continui a essere tu. Puoi farci quel che vuoi».
«E poi? Che succederà?» chiede Ester, con un filo di voce.
«Vivrai il tempo che ti resta assieme al tuo cancro. E lascerai che lo facciano anche le persone attorno a te».
Ester rimane immobile per parecchio. Poi si alza e si avvicina al Muro. La superficie s’increspa subito come il telo di un sipario, allungandosi in avanti a formare l’accenno del muso di un cavallo, che sbuffa e si dimena senza sosta. lei ci poggia sopra una mano. «Per Roberto ero speciale, davvero – dice, come se si fosse ricordata all’improvviso di una vecchia battuta che aveva dimenticato – . Diceva che l’aveva capito dai miei occhi».
Tutto inizia a tremare, mentre granuli di polvere si staccano dalla superficie bianca del Muro, prima briciole e poi una cascata. Quando il tremore si ferma, sulla facciata è possibile notare i contorni dei mattoni che lo compongono. Il sole opaco è tornato nel cielo grigio e del simulacro di Ester non c’è più traccia. È tornata a essere ovunque.
Mi sdraio sulla sabbia, di nuovo del suo colore argentato, e chiudo gli occhi. Sprofondo tra i granelli in una dissolvenza progressiva, morbida, anche questa diversa dallo tsunami che mi ha portato via dalla sfera emotiva di Giacomo. Sto per tornare al mondo fisico. Al mio sanguinante, lussato, moribondo corpo. Sorrido. Cazzo, non voglio morire a Poràgneve.


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