Il nostro è un patto di sangue


Era buio dentro il lupo, ma io sapevo di essere sveglia. Viva, in qualche modo. Nessuno dei miei sensi era realmente attivo, eppure potevo percepire il calore dell’animale condensarsi sul mio corpo, delle gocce scivolare sulla pelle del viso. Non sapevo che razza di liquido fosse, forse i succhi gastrici avevano iniziato ad ammorbidire quello che restava di me. Presto, quando la digestione vera e propria sarebbe cominciata, quegli stessi succhi avrebbero iniziato a sciogliermi e a quel punto non avrei avuto speranze di rimanere cosciente.
Era così che credevo sarebbe andata a finire.

La morte non è come la dipingono, può darsi non esista nemmeno, non sono ancora in grado di dirlo con certezza. Ciò che so, è che quando sono stata mangiata non sono morta. Sono rimasta viva, vedo, anche se dentro il lupo è buio. Ho gli occhi aperti, sono viva, e penso. Quando il lupo mi ha azzannata alla gola (o forse erano più lupi? Non ricordo con esattezza, è successo così in fretta) ho perso i sensi e mi sono come addormentata. Mentre gli occhi si spegnevano riuscivo ad avvertire il calore del sangue che s’allargava sul petto, caldo come una coperta. Non ho sentito dolore, era una sensazione quasi dolce, come crollare dopo una lunga giornata di lavoro. Poteva esser quella la morte? Un sonno improvviso, inevitabile, armonioso. Dire che me ne sono resa conto sarebbe raccontare una bugia. Se muori di morte violenta non rifletti davvero su cosa sta succedendo, dentro te scoppia un indecifrabile miscuglio di istinti. Ti blocchi e ti consegni al fato. Ti consegni ai lupi.
Mi domando se succeda a tutti di continuare a vedere anche quando il corpo smette di funzionare. Se le persone che vengono chiuse nelle bare (come sarebbe dovuto succedere a me in un futuro differente) possano guardare come me ora, farsi posare un coperchio di legno ermeticamente saldato, osservando per ultimi i propri cari mentre piangono al funerale. Se sarà il buio a mostrarsi per sempre o se prima o poi si spegneranno da soli, come scaricandosi. Se potessi, consiglierei alle persone a cui voglio bene di farsi cremare, così, se anche allora dovessero rimanere sveglie, passerebbero l’eternità – o il tempo debitore – a viaggiare per il mondo come vento, il che è di sicuro preferibile ad un perenne nero sotterraneo.
Sono arrivata alla conclusione che essere mangiata da un animale non è la peggiore delle fini. Verrò digerita ed espletata, e allora forse riuscirò davvero a mettere fine ai pensieri, alla coscienza che mi tiene sveglia; oppure succederà qualcos’altro che non so prevedere, di certo sono rincuorata che non mi aspetti una bara.
È strano essere dentro il lupo. Non sono quasi più me, mi percepisco diversa, un agglomerato. Man mano che il tempo passa (nella sua pancia non c’è modo di capirne lo scorrere) perdo sempre più l’ancoraggio alla realtà, sento che sto per accedere a un nuovo sonno. Che sia questa tiepida anestesia naturale, la vera morte? Attendo con gioia, immersa nei succhi gastrici, sballottata qua e là nel suo ventre. Si sta muovendo. Veloce.

Dove stai correndo, lupo? Hai ancora fame? Mentre mi sciolgo, i pensieri si allontanano da me. Cerco di far riaffiorare i ricordi, ricordi che siano solo miei e non di questa creatura, ma è difficile.
Più scavo, più mi immergo in essi per riviverli, più trovo il vuoto e il pensiero va all’animale di cui ormai sono parte. Provo a recuperare le informazioni più recenti: quelle della mia scomparsa. Non ricordo cosa ci facessi nel bosco. Stavo campeggiando da sola? C’era qualcuno con me? Magari quel qualcuno a un certo punto è scappato via quando ha sentito arrivare i lupi, o il lupo.
O forse non c’era nessuno fin dall’inizio, forse volevo semplicemente avventurarmi e stare sola coi miei pensieri. E se qualcosa mi avesse spinta a farlo? Questa ipotesi mi smuove il cervello, intuisco che è la strada giusta, un fuoco da inseguire. Frugo a lungo, ma non trovo nulla. Nulla. Tutto pare cancellato. Disintegrato. Oppure nascosto. Sento che una parte di me conserva ancora i ricordi, ma in questo momento non posso accedervi.
Nell’attimo stesso in cui abbandono le ricerche ho il sentore che mi sto sciogliendo per davvero. Apro bocca e occhi, inalo quel calore torbido. Poi, abbandono. E accade di nuovo. Il ripetersi della stessa sensazione, quella morte precedente: un quieto e toccante sonno ristoratore. Ma, anche questa volta, non esalo. E, al risveglio, rinasco completamente. Non sono più la carne sciolta negli acidi dell’animale.
Ora io sono la bestia.

Quando apro gli occhi una nuova visione s’impadronisce di me. È notte fonda nella foresta, ma vedo comunque benissimo. Ho dimenticato i colori; ora provo degli stimoli fortissimi che mi spingono a correre, fiuto odori lontani che ricollego ad altri esseri viventi, percepisco come si muovono, dove stanno andando, le loro emozioni – più di tutte, la paura – le condizioni fisiche, anche se non li ho di fronte. Posso avvertire la presenza di altri lupi, nella distanza, e capire se vogliono avvicinarsi a me o stare alla larga. Sono potente, reattiva, il mio corpo non è mai stato così agile, così veloce. Percepisco un vero e proprio godimento nel muovere questa macchina esemplare, e mi accorgo di che accrocco imperfetto e doloroso è invece il corpo umano, pieno di difetti, senza spirito, statua secolare di sedentarietà. Il corpo animale ha bisogno di muoversi, i muscoli di allungarsi per lo sforzo, i nervi di trasmettere gli impulsi del cervello attraverso i tendini, sempre più veloce, sempre più veloce, e il suo funzionamento provoca un piacere che non ha eguali.
Ormai, dei resti della ragazza che una volta ero io non è rimasto niente. Sono stati digeriti, ultimati. Adesso è la fame a divorarmi dall’interno. È un tipo di fame devastante di cui non ho mai fatto esperienza, prende possesso del mio organismo e diventa l’unica ragione di vita, l’unica ragione del mio agire.
Mi fermo un attimo ad annusare l’aria, alla ricerca di cibo. Mi posiziono sottovento. C’è qualcosa: rimango immobile, punto gli occhi, le orecchie e il naso in quella direzione.
Un cervo – una femmina, credo – abbastanza giovane. Emana un odore intenso, forse è in calore. Non ha cuccioli con sè. Una facile preda, dopotutto, può bastare e durare a lungo, saziarmi per bene. Inizio a braccarla senza indugi, è un’occasione che non posso sprecare.
Man mano che mi avvicino rallento il passo. Faccio piano, non deve accorgersi di me, scivolo tra i cespugli. La cerbiatta bruca l’erba assonnata, ogni tanto sembra sbirciare intorno. Forse ha perso il suo branco, o attende il compagno. Fatto sta che è tutta sola. Quando sono abbastanza vicina mi fermo ad osservarla, la studio con attenzione: devo capire se è in grado di fuggire, se è abbastanza resistente all’attacco. È un po’ più grossa di me, anche un cerbiatto può ferirti se spaventato a morte. All’improvviso l’erbivora drizza la testa e si guarda intorno: deve aver percepito qualcosa. In un istante: quella stupida bestia inizia a correre all’impazzata. Devo ammettere che è veloce, ma anche noi predatori lo siamo. Fossimo stati in piena luce, fosse stata in branco, avrebbe avuto qualche possibilità di sopravvivenza, ma nelle tenebre sono i lupi a vederci meglio. Chissà, se solo avesse deciso di affrontarmi. Se avesse notato la mia nobile figura. Se avesse preso coraggio. La lascio correre qualche minuto, seguendola a distanza di sicurezza, così da farla affaticare. È divertente vederla incespicare per i sassi, ferirsi con i rami spinosi, accecata dal panico. L’odore della sua paura è quasi tangibile, avverto la pressione sanguigna aumentare e già assaporo la sua carne gustosa tra le mie fauci. Non appena barcolla confusa e stremata, scatto e mi avvinghio al fianco sinistro, affondando gli artigli e i denti nel suo tenero corpo. Il sangue è caldo, schizza fuori e mi riempie la bocca, un gusto incredibilmente dolce. La bestia urla disperata appena il dolore è recepito dai suoi nervi, l’urlo si diffonde nel bosco. Prova a correre e a dimenarsi, ma io sono ben attaccata a lei e non la lascio per nulla al mondo, il suo sangue mi dà una forza inimmaginabile. In quella specie di folle corsa inciampa su un tronco cavo e cade a terra, è un lamento acuto e straziante. È sfinita, dissanguata, mi getto sul collo afferrando la giugulare. Un getto potente dall’odore di rame sprizza e mi ricopre tutto il muso.

Quella sera mangiai gran parte della bestia, ne rimase ben poco. Mi addormentai lasciando che la digestione facesse il suo corso. Avevo la netta sensazione che fosse ancora viva dentro di me, potevo sentirla ancora nello stomaco. Non ci feci caso, e chiusi gli occhi.


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