Capitolo VIII / Incubus

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Quando esco l’orologio del campanile fuori la casa di Ester segna le tre e mezza, e il paesino è vuoto proprio come due ore fa. Per me è un vantaggio: gli abitanti non si sveglieranno ancora per qualche ora, e questo mi dà l’occasione di chiudere la faccenda con l’Incubus. Seguo le indicazioni di Giacomo e attraverso una parte del centro storico di Poràgneve, superando poi un ponticello sopra un fiumiciattolo quasi secco. Raggiunta la piazza descritta da Ester capisco perché l’Incubus ha scelto di nascondersi nei paraggi. Il posto brulica di tracce psico-emotive. Come scarafaggi, si confondono con la ghiaia del selciato; sono numerose ma lontane, sbiadite dal passare del tempo.
Quest’altra piazzetta sta su un incrocio ipotetico, non segnalato da alcun elemento urbanistico, tra la strada da cui sono arrivato e un’altra lingua d’asfalto che porta fuori dal paese. I fusti di cinque sempreverdi con la corteccia coperta di graffi circondano lo spiazzo, che ospita una fontana e una vecchia altalena. Un muro di cemento con una ringhiera guarda il letto del fiume e i contorni ristrutturati del convento domenicano si stagliano bui dal lato opposto dell’incrocio. Secondo un pannello informativo simile a quello sulla collina, il convento è stato costruito per ordine dell’inquisitore Biagio Berra, responsabile nella valle della repressione di eretici e stregoni. Sembra che a trovare la morte qui siano state oltre trenta persone. Ecco spiegate le tracce psico-emotive.
Mi figuro nella mente l’immagine di Ester seduta, forse su una delle radici degli alberi, sotto shock. La immagino accorgersi che qualcosa le sta ronzando attorno, il piccolo Incubus in cerca di un nuovo ospite. Non si sarà allontanato molto, ma potrebbe essere ovunque. Oppure no, contando che al nostro primo incontro puzzava come un sacchetto dell’umido sotto un temporale. Il fiumiciattolo, il ponticello che ho appena attraversato: se fossi il cugino malvagio dei Mini Pony sceglierei un posto del genere, nascosto ma vicino alla superficie. Scommetto che, se scendessi verso l’acqua, prima o poi troverei la sua tana. Piena di cunicoli e scricchiolii striscianti, perfetta per intimorire un qualunque ficcanaso.
Non ho alcuna intenzione di andarci. Sarà lui a venir fuori, ne sono sicuro. Perché lui è spaventato almeno quanto me e scommetto che in questo ore non ha smesso di pensarci.
Prendo dalla giacca il coltellino abbandonato dai due giovani satanisti sulla collina, mi pungo un dito e lo appoggio sui tronchi ruvidi di due alberi. Scelgo quelli separati dalla fontana, sono abbastanza distanti da fare al caso mio. I punti rossi scompaiono dalla corteccia come non fossero mai esistiti, segno che il trucchetto ha avuto successo. La trappola è semplice, fin troppo. Vado dalla ringhiera, prendo dei sassolini dal fondo della piazza e li tiro giù, nel buio sotto al ponticello. La ghiaia si schianta contro le pietre e i mattoni.
«Ehi, stronzo! Vieni a fare quattro chiacchiere?»
Per parecchio sembra non succedere niente. Poi, un tremolio inizia a scuotere l’acqua del fiumiciattolo. Torno al centro della piazza e sento lo spostarsi di una massa d’aria e uno scrosciare molliccio e continuo. La luce della luna d’autunno viene coperta da una sagoma che si libra come un rapace.
L’Incubus svolazza nel cielo, disseminando una cascata di gocce d’acqua fetida sul la piazza. Poi atterra qualche metro davanti a me, tra i due alberi ai lati della fontana.
«Piaciuta la sorpresa? Ho pensato di passare io, questa volta» dico.
La creatura ringhia. Sotto il collo, in corrispondenza del petto, la pelle bianca è raggrinzita e molto più scura. «Io… non me ne vado…»
Sbuffo. «Lo immaginavo».
«Chi… ti ha… portato… qui…»
«La carissima signora Ester».
L’Incubus è incazzato e confuso, meno spavaldo di poco prima. Mi guarda fisso. «Lei… non sa… di me. Crede che sia… un ricordo…»
«Non dopo la nostra ultima chiacchierata. Ester sa di te, e non è molto contenta di averti portato appresso per tutta la vita».
«Senza di me… lei non sarebbe… niente… non avrebbe mai… superato… il dolore…»
«Senza di te lei avrebbe ancora un figlio e un marito».
«Ah, il figlio… è stato lui… a coinvolgerti, vero?»
Ha voglia di chiacchierare, ‘stavolta. «La scoperta del tumore di Ester ha avuto serie ripercussioni sulla sua sfera emotiva… se l’hai percepita tu perché non avrebbe dovuto percepirla anche lui, visto che possiede una parte di te? O avevi dimenticato di aver lasciato un tuo frammento in giro per il mondo?»
«Quel frammento… dentro di lui… posso riprendermelo… quando desidero… il ragazzo… è… insignificante, per me! Solo… la donna… importa…»
«Lo immagino. Beh, mi dispiace…»
«Che ne dici… di uno scambio, Senzanome?» lo interrompe subito il consigliere comunale.
Lo guardo negli occhi, trattenendo una risata. «Vai avanti».
«Ritirerò… il frammento… dal ragazzo, liberandolo… e tu te ne andrai… lasciandomi la donna…»
In effetti non sembra male. Dal suo punto di vista capisco perché dovrei accettare: potremmo tornare alle nostre esistenze dimenticandoci di questo posto e l’uno dell’altro. Io risolvo il caso, lui rimane con l’ospite principale, che a breve morirà di cancro. Non mi torna.
«Puoi andare a farti fottere. Ti sei preso tutto quello che le stava succedendo dentro dall’arrivo dei nazisti: alla fine della sua vita Ester merita un po’ di libertà, almeno da te».
L’Incubus ride, o almeno ci prova, nel suo modo inquietante.
«Non sai… nemmeno di cosa… parli. Credi… che lo shock… sia bastato… a farmi diventare… così? Guardati, Senzanome… il mostro simile agli umani… che uccide i loro mostri per vivere… e non hai… capito nulla… né di loro, né di noi…»
Non rispondo, aspetto che continui. «L’eccidio… è stato solo… l’antipasto. Il vuoto… lasciato dalla morte… delizioso. Ma quel che è venuto dopo… tutto il resto del tempo… tutti gli errori e l’egoismo e la paura… ancora meglio…»
Lo guardo contorcere il corpo pallido, gli occhi socchiusi, le palpebre traballanti, e decido che la chiacchierata è durata troppo. «Te l’ho già chiesto una volta, di andartene a fanculo. Devo ripetermi?»
L’Incubus allarga le zampe, abbassa il collo e inarca la schiena sbattendo la coda a destra e a sinistra. Mi si scaglia contro a tutta velocità: il cranio equino mi colpisce alla spalla destra. Finisco a terra, le pietruzze mi graffiano il corpo coperto di sabbia. La spalla deve avere qualcosa che non va, non è nella sua solita posizione. Nulla di grave, almeno sembra, ma fa un male cane.
Facendo forza sull’altro braccio riesco a tornare in piedi. Butto un’occhiata alla giacca di velluto, non sembra abbia riportato danni particolari. L’Incubus adesso si trova all’estremità opposta della piazza rispetto ai due sempreverde su cui ho impresso il mio sangue. Mi fissa e pesta a terra con gli zoccoli, si sta preparando a un’altra carica.
Qualcosa si catapulta in avanti sopra la mia testa, un missile diretto verso l’Incubus, che lo colpisce in volto. Ci metto un po’ a capire, tra la penombra e i movimenti agitati, che la cosa avvinghiata al muso con gli artigli e che lo tempesta di colpi con il becco tozzo, è un piccione deforme. Jonathan Livingstone! Ne approfitto e torno verso la fontana e i miei alberi preferiti. Vicino ai sempreverde sento che le tracce psico-emotive si fanno intense. Una goccia del mio sangue a contatto con l’Incubus, non serve altro.
Un colpo arriva dalle mie spalle, le grida del piccione scompaiono d’improvviso. Mi volto e vedo l’Incubus che sovrasta una massa nerastra appoggiata a terra, immobile. KO totale.
Il cavallo pallido si avvicina con le zampe tremanti, muovendo la testa a destra e a sinistra e allargando le froge. I suoi occhi viola sono socchiusi, le palpebre coperte di sangue. «Non ci vedo! Ma ti sento… so che ci sei… ancora…» ringhia.
Non rispondo. Deve solo avanzare, giusto qualche altro metro. E invece si blocca sul posto e smette di fiutare l’aria. Inarca la schiena e il corpo, scossi dagli spasmi. Quando l’Incubus smette di tremare dal fondo spoglio della piazza cominciano a sollevarsi braccia e mani artigliate, nere e percorse da puntini arancioni come fatte del fumo di un braciere. Si allargano verso l’esterno protese in alto, alla ricerca di qualcosa.
«Non puoi… fuggire, Senzanome!» sbraita l’Incubus, librandosi in volo per lasciare libera la piazza.
Le appendici fantasma si fanno sempre più vicine, spargendo nell’aria brandelli di pelle annerita, brace e zampilli infuocati. Se mi afferrano, riverseranno nella mia coscienza la rabbia per la loro morte insensata. Non sembra una bella esperienza.
Con la rapidità che mi consente la spalla incidentata sfilo la giacca di velluto e, prendendo le maniche dall’interno, la giro lasciando all’esterno l’imbottitura violacea. Poi la lancio verso il centro della piazza. Come forse avrete già capito le sue tasche sono portali verso una dimensione-ripostiglio praticamente infinita, capace di ospitare senza termini qualunque oggetto vi venga riposto. O finisca per farvi dentro, in qualunque modo. Dopo un po’ le braccia e le mani fantasma si ritirano verso il punto in cui si trova la giacca, per scomparirci all’interno. Tentano di aggrapparsi al battuto, si agitano mosse dalla propria rabbia e da quella dell’Incubus. Anche la sabbia e la ghiaia che ruotano attorno alla piazza vengono attirate, ma invece di essere risucchiate dall’indumento tornano a posarsi sulla pavimentazione spoglia. Poi la giacca, del tutto satura, esplode in fiamme verde fosforescente.
L’Incubus si lancia dal cielo in mia direzione ma riesco a evitarlo. Lui atterra malfermo a pochi passi da me… e in mezzo ai due alberi divisi dalla fontana. Mi volto verso la creatura: due fiotti di sangue esplodono dalla corteccia dei sempreverde e si avvinghiano all’Incubus, trascinandolo a terra. Il tutto dura qualche secondo, la creatura riesce solo a urlare spaventata.
«Ora non venirmi a dire che non ti ho lasciato scelta» dico.
L’Incubus prova a mettersi in piedi, sbatte le ali per librarsi da terra, ma la stretta sul collo si rinforza.
«Lasciami… andare! Io… sono un dio, qui! Non hai alcun diritto…» sbraita lui, ogni parola ringhiata attraverso la dentatura equina.
«Vuoi inoltrare un modulo al sindacato delle creature succhia-emozioni?»
Il laccio si fa più stretto. Gli occhi dell’Incubus sono così gonfi da rendere ridicola l’idea che possano rimanere nel cranio ancora per molto. «Se… me ne vado… lei morirà…» balbetta, con la voce spezzata.
Grazie al loro legame Ester dimostra venticinque anni in meno di quelli che ha davvero. La sta mantenendo in forze, nonostante la malattia. «Un problema alla volta, ok?» dico, mentre il laccio continua a stringersi.
Si sente uno strappo secco e il collo dell’Incubus si piega in modo innaturale. La creatura trema, rantola e si accascia. Poco dopo il suo corpo comincia a dissolversi, spazzato via dall’aria fredda della notte. È sorprendente come un problema che durava dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si sia risolto nell’arco di qualche minuto.
Mi muovo verso l’altalena vicina al pannello informativo. Passo davanti al corpo del piccione, che sembra una fredda riproduzione di se stesso. Lo raccolgo e lo lascio ai piedi del sempreverde vicino all’altalena, sotto una radice sporgente.
Le corde sfilacciate della giostra, quando mi siedo sulla tavoletta di gomma smangiata, cigolano ma sembrano reggere. Faccio per infilare la mano nella tasca della giacca e prendere un chewing gum ma poi ricordo di non avercela più. Chissà quanto dovrò aspettare per il primo treno verso Torino. Giacomo, magari, uno strappo fino alla stazione più vicina me lo può dare. Penso a lui e a Ester e mi chiedo se in giro ci possano essere altre situazioni come queste, con dolori irrisolti e famiglie allo sfascio, ed esseri che dal disagio traggono forza.
Rimango un po’ a dondolare sull’altalena poi quando il freddo, che senza la giacca finalmente sento davvero, si fa troppo forte scendo e mi muovo verso il ponticello e il centro storico del paese. Torno a “Casa Prieri”, un fantasma congelato che nessuno, quando Poràgneve tornerà alla vita, ricorderà mai essere stato qui. Mi stupisco quando vedo Ester fuori dal portone, con le braccia strette al petto.
«Che succede?» le chiedo. Strano a dirsi, ma non sembra disturbata o incuriosita dal mio aspetto.
«Giacomo – risponde lei, spostando lo sguardo da me all’entrata – è successo qualcosa».
«Cosa?»
«Quando sei uscito è rientrato, abbiamo ricominciato a parlare. Gli ho chiesto di prendere dell’acqua dalla cucina, lui ci è andato e poi ho sentito un tonfo. Non riesco a svegliarlo!»
Mi lancio verso il portone, supero il cortile ed entro in soggiorno di volata. Trovo Giacomo sul parquet, perfettamente composto come un manichino, gli occhi coperti da una patina grigia che sembrano schermi di televisori senza segnale.
«Ester, da quanto è così?» chiedo, senza staccare gli occhi da lui.
Nessuna risposta.
Un’esplosione di dolore mi arriva dritta al cervello partendo dalla schiena. Muovo le dita e mi accorgo che c’è qualcosa di affusolato che mi esce fuori dal fianco. Un coltello. Ho un coltello piantato nella schiena. Cado in ginocchio e sento che qualcuno fa scivolare la lama via dalla carne. Guardo l’entrata del salotto: Ester ha in mano il coltello e in faccia un largo sorriso. I suoi soliti occhi verde marcio sono stati sostituiti da due tizzoni identici di un viola fin troppo famigliare.
«Dobbiamo finirla di incontrarci così, Senzanome» dice lei, scandendo le parole come se fosse abituata a parlare molto più lentamente di così.



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