Il potere degli anelli


Gli anelli impreziosiscono le dita degli esseri umani almeno dal III millennio a. C., ovvero dalla cosiddetta Età del Bronzo, un periodo traboccante di scoperte, cambiamenti e invenzioni. Oltre alla metallurgia, l’Età del Bronzo vide anche la nascita della scrittura. E chissà che non sia stata proprio questa nuova abilità, che focalizzava l’attenzione sulle mani, a favorire in qualche modo la diffusione di tali ornamenti. In realtà, è più probabile, che lo sviluppo di gioielli da portare alle dita si debba a questioni molto più pratiche, come l’avere sempre a portata di mano il proprio sigillo per “firmare” manufatti e missive, nonché per accordare il proprio consenso e attestare la propria identità.
Fra i più antichi anelli rinvenuti figurano quelli dei corredi funerari delle sepolture reali di Ur (2500 a. C. circa) e quelli presenti nel cosiddetto “tesoro di Priamo” (2200 a. C. circa) riportato alla luce da Heinrich Schliemann.
Dobbiamo però ricordare che le nostre conoscenze sull’utilizzo di anelli e, più in generale, di gioielli nell’antichità si basano principalmente su oggetti che oggi etichettiamo come reperti archeologici poiché hanno vinto la sfida del tempo e, in una maniera o nell’altra, sono giunti fino a noi (solitamente perché conservatisi all’interno di tombe oppure occultati e ammucchiati come tesoretti durante periodi particolarmente problematici quali quelli caratterizzati da guerre, scorrerie o disastri naturali). Ciò implica che la nostra cognizione in merito potrebbe essere del tutto parziale poiché potrebbero mancare all’appello monili anche più antichi realizzati con materiale deperibile come legno o tessuto.
Plinio (Storia naturale, XXXIII, 4 e XXXVII, 1), pur riconoscendone la falsità, ci rammenta il mito che lega Prometeo alle origini degli anelli. La faccenda risalirebbe al momento in cui Eracle giunse sulle montagne del Caucaso e liberò, dopo anni di agonie, il Titano. Zeus non si oppose – un po’ perché nel frattempo si era pentito della punizione inflittagli e un po’ perché Eracle era pur sempre il suo figlio prediletto – ma decretò che, a perenne memento del suo divino castigo, Prometeo dovesse indossare un anello forgiato dal ferro delle sue catene, su cui era incastonata una pietra del Caucaso, suo luogo di prigionia. Questo sarebbe stato, dunque, il primo anello comparso sulla faccia della Terra.
Sul piano simbolico generale, l’anello condivide con il cerchio l’idea di perfezione, eternità e prosperità oltre a essere emblema del tempo ciclico. Rappresenta inoltre il potere e tutto ciò che a esso è collegato: sovranità, divinità, forza, dignità. Donare un anello significa trasferire il comando o la signoria, dare la propria parola, vincolare e vincolarsi, ma anche unire personalità precedentemente distinte.
Secondo Frazer, gli anelli condividono con i nodi il potere di costringere, frenare, evitare il libero fluire della vita e delle esperienze. I loro influssi hanno ricadute sia in ambito spirituale che nelle attività prettamente materiali. Il portare un anello al dito può ostacolare o impedire la conclusione di progetti, cerimonie e perfino intrappolare entità demoniache. Come sottolinea lo stesso Frazer: «l’anello, al pari del nodo, agisce come una catena spirituale» (Il ramo d’oro, p.285). Pare che Pitagora vietasse di indossare anelli e in diversi santuari non era consentito l’ingresso alle persone inanellate. In tempi più recenti, nell’isola greca di Karpathos, quando si preparava il corpo di un defunto per le esequie, ci si accertava di sfilargli eventuali anelli affinché la sua anima non rimanesse trattenuta nel mignolo e perciò non potesse trovare pace. Quando si parla di spirito, l’anello ha la capacità sia di trattenerlo all’interno, sia di impedirne l’ingresso dall’esterno. È per questo motivo che in Tirolo le partorienti erano invitate a non sfilarsi mai la fede, al fine di non essere prede di streghe o altri esseri sovrannaturali maligni. Ma, come spesso accade nel folklore, si ha testimonianza anche di una credenza opposta: le partorienti devono evitare di indossare qualsiasi cosa chiusa, legata – come nodi, cinture e anelli – per scongiurare complicazioni nel parto.

Nella mitologia e nel folklore norreno, l’anello ha anche la capacità di creare un legame con la divinità che spesso, tramite esso, si fa garante di un giuramento. Su di essi, infatti, si stringono patti e per suggellare il tutto, vengono aspersi di sangue sacrificale. Nella Skáldskaparmál (ovvero Dialogo sull’arte poetica, seconda parte dell’Edda di Snorri Sturluson, XIII secolo) ci viene raccontato che due fabbri nani, i fratelli Brokkr ed Eitri, forgiarono e consegnarono a Odino un magico anello d’oro chiamato Draupnir dal quale ogni nove notti letteralmente “gocciolano” fuori (qui il rimando è al nome stesso del gioiello, connesso con il termine drjúpa che significa, appunto, gocciolare) otto nuovi anelli di uguale peso.
Come possiamo evincere anche solo da questi pochi esempi, fin dai primordi della loro esistenza, gli anelli sono stati associati a poteri che potremmo definire magici. Si è pensato che gli anelli fossero in grado di proteggere da incantesimi e malocchio, imprigionare o tenere lontane entità demoniache ed essere una sorta di scudo contro un variegato elenco di pericoli.
Non è sempre agevole, però, distinguere i poteri posseduti dall’anello in sé da quelli delle gemme in esso incastonate o del materiale di cui è costituito o, ancora, delle iscrizioni su di esso incise.

Anelli che rendono invisibili
Il primo e probabilmente più famoso anello di invisibilità di cui abbiamo traccia è quello di Gige, così come ce lo racconta Platone (Repubblica, II, 359-360). Questo Gige1 era un pastore al servizio del re della Lidia e pare che un giorno, mentre portava a pascolare il gregge, si sia imbattuto in un’ampia voragine apertasi nel terreno in seguito a un recente terremoto. Calatosi nella dolina per curiosità, vi trovò, fra le altre cose, un cavallo di bronzo al cui interno giaceva il corpo di un uomo gigantesco, con indosso solamente un anello d’oro. Il pastore trafugò il prezioso anello e poco tempo dopo scoprì per caso, giocherellando con il gioiello durante una noiosa assemblea, che se voltava il castone verso l’interno della mano scompariva alla vista degli altri e riappariva se lo risistemava nella posizione solita. Gige non perse tempo: sfruttò il potere dell’anello per sedurre la regina, farne fuori il marito e diventare il nuovo re di Lidia2.
Sebbene non sia specificato espressamente, si è soliti dare per scontato che l’anello di Gige non fosse un semplice cerchietto d’oro, ma vi fosse montata una gemma. Tale supposizione dovrebbe essere supportata dall’utilizzo, nel testo originale, del termine σφενδόνη col significato di castone. Non avendo informazioni precise sul materiale che decorava l’anello, gli autori successivi hanno formulato varie ipotesi, puntando in special modo sull’opale, ma pure su di una leggendaria pietra che si troverebbe nella testa di certi serpenti crestati che vivrebbero sulle montagne dell’India.
L’abate nonché occultista tedesco Johannes Trithemius (1462-1516), che fu, fra le altre cose, insegnante di Paracelso, sostenne di aver fabbricato un anello di invisibilità impiegando l’elettro, una lega di oro e argento. Per funzionare, l’anello doveva essere fuso all’orario esatto di nascita della persona che intendeva utilizzarlo e vi doveva essere impresso il Tetragammaton ovvero la sequenza di lettere ebraiche che costituiscono l’ineffabile nome di Dio. Per diventare invisibili, doveva essere indossato al pollice sinistro, ma in realtà il gioiello aveva anche altre mirabili capacità: portato su di un dito qualsiasi evitava l’avvelenamento e cambiava colore se nelle vicinanze c’erano dei nemici.
Qualche decennio dopo, sarà Reginald Scot nel suo The Discoverie of witchcraft a spiegarci come fare per ricevere dalle «three sisters of fairies» Milia, Achilia e Sibylia l’anello che vi permette di diventare invisibili non solo agli occhi altrui, ma perfino a voi stessi! Infatti, se l’evocazione va a buon fine, una delle donne di bianco vestite vi consegnerà un anello che, una volta al vostro dito, vi impedirà di vedere il vostro riflesso allo specchio.

L’anello di Polifemo
Se non ricordate nessun anello fra le mani del mitico figlio di Poseidone non sbagliate affatto: Omero non ne fa menzione. Attenzione, però: quella presente nel IX libro dell’Odissea è sicuramente la versione più famosa nonché la più antica attestazione letteraria di tale storia, ma non è certo l’unica. Innanzitutto, la ritroviamo anche in altre opere con uno spiccato retroterra orale e caratterizzate da un notevole repertorio di residui folklorici come, per esempio, le Mille e una notte (Terzo viaggio di Sindbad). Per non parlare, poi, delle numerose varianti moderne, registrate a partire dal XIX secolo un po’ ovunque nel mondo e che nel sistema di classificazione ATU vengono indicate come tipo 1137. L’enorme diffusione, sia nel tempo che nello spazio, di questo tipo folklorico rende improbabile una dipendenza diretta dagli scritti omerici e punta maggiormente su di un “antenato comune” davvero molto vecchio. Studi recenti che applicano la filogenesi comparativa e la statistica sono infatti giunti alla conclusione che questo racconto potrebbe risalire addirittura al Paleolitico. E se ne tratto qui è perché in molteplici versioni spunta fuori proprio un anello magico. In particolare, per esemplificare vorrei concentrarmi su due fiabe spagnole e due italiane in cui vedremo come l’anello di Polifemo, chiamiamolo così, sia in pratica l’opposto di quello di Gige.
Nella versione asturiana El anillo de «por aquì», al posto di Ulisse c’è una bambina che si perde andando a raccogliere legna. Sopraggiunge la notte e cercando un rifugio capita nella casa di un gigante con un occhio solo che la intrappola e la costringe a preparagli la cena mentre lui si fa un bel sonnellino. La bimba arroventa uno spiedo e lo ficca nell’occhio del mostro, poi riesce a scappare ricoprendosi con la pelle di un agnello e mescolandosi al gregge. Quando il gigante se ne rende conto, con falsa gentilezza le dice: «Visto che sei di ingegno acuto, ti perdono. E come prova del mio perdono, ti regalo l’anello a cui tengo di più» e lo tira fra l’erba poiché essendo stato accecato non può vedere dove la bambina effettivamente sia. La bambina inizialmente esita, ma poi si lascia tentare dal luccichio del gioiello e lo raccoglie. Non appena se lo infila al dito, l’anello inizia a gridare «Por aqui!» (= Per di qui!) rivelando così al gigante la posizione della bambina. L’anello urlante non si lascia più togliere perciò, messa alle strette, la giovane si taglia il dito e lo butta in un fiume nel quale poi il gigante, seguendo le indicazioni dell’anello, finirà per annegare.
Nella variante navarra, El Tártaro, l’azione si svolge all’interno della casupola dell’eroe della fiaba, il pastore Txikilín. Contrariamente a ciò che accade di solito, è infatti quest’ultimo che, in una notte buia e tempestosa, si ritrova costretto a ospitare il temibile Tártaro (o Tartalo), un essere tipico del folklore basco descritto come un gigante peloso con un solo occhio in mezzo alla fronte. Anche in questo caso, il mostro ordina che gli si prepari la cena e dopo essersi ingozzato si mette a dormire davanti alla porta, bloccando così eventuali tentativi di fuga. Txikilín, come potrete immaginare, lo acceca con lo spiedo arroventato e poi tenta di svignarsela spacciandosi, come di consueto, per pecora. Quando il Tártaro comprende l’inganno, gli lancia un anello prezioso che appena viene indossato da Txikilín si mette a sbraitare «Tártaro, aquí estoy!» (= Tártaro, sono qui!). Segue l’amputazione del dito che viene gettato in un pozzo e la conseguente morte del gigante.
Passiamo ora alle varianti italiane. La prima che affronterò è abruzzese e si intitola Occhio in fronte. Occhio in fronte è il nome del “Polifemo” di turno e ad affrontarlo, stavolta, ci sono inizialmente due frati che come da prassi cercano un riparo per la notte. Il gigante li accoglie nella sua spelonca, sbarrandone poi l’accesso con un pesante macigno, quindi fa tirare a sorte ai due fraticelli chi debba essere mangiato per primo. Il superstite, denominato Fratino nella fiaba, è di fatto l’eroe della storia che si muove su binari a noi già noti. La peculiarità, qui, sta nei poteri dell’anello che Occhio in fronte gli dona. L’anello fatato ha infatti questa proprietà: più Fratino tenta di allontanarsi dal gigante antropofago, più gli si avvicina.
Infine, la fiaba pisana riportata da Comparetti, Il Fiorentino, è fra quelle proposte, la storia che più si discosta dalle imprese di Ulisse. Qui, un uomo nato e cresciuto a Firenze decide di mettersi in viaggio per vedere il mondo. Condivide il cammino con un curato e un fattore che, lo sappiamo già, hanno il destino segnato. Il gigante non vive in una caverna, bensì in uno sfarzoso palazzo e inganna i tre viandanti non solo offrendo loro un posto in cui dormire, ma pure prospettando loro la possibilità di essere assunti al suo servizio. Ma il Fiorentino è un tizio scaltro e previdente tanto da sbirciare dal buco della serratura quando l’omone invita in una stanza isolata prima il curato e poi il fattore con la scusa di mostrar loro delle carte. Ciò che vede lo impensierisce non poco: mentre i suoi compagni vengono distratti dalla lettura di alcuni fogli (il contratto di assunzione?) il gigante estrae una sciabola, li decapita e ne fa sparire i cadaveri (non si fa accenno a un’eventuale antropofagia). Il Fiorentino si scervella per ideare un piano che gli garantisca di uscir vivo da quella brutta situazione e così propone all’imponente serial killer – perché questo è – di curargli l’occhio strabico3. Coglie un’erbetta qualunque dal prato della magione fingendo sia una portentosa medicina e la mette a bollire con dell’olio. Il Fiorentino spiega al gigante che il processo è molto doloroso, ma che deve rimanere immobile, pena la non riuscita dell’intervento, perciò lo convince a farsi legare a una pesante tavola di marmo. L’uomo quindi versa l’olio bollente sugli occhi del malvagio e corre via. In questa versione, trovandoci in un ambiente aristocratico-borghese, non abbiamo traccia dell’episodio delle pecore, c’è solo il gigante che non riesce a star dietro al fuggiasco per via della zavorra a cui è vincolato e che, perciò, gli propone un anello come souvenir della sua avventura. L’anello è, naturalmente, magico e appena messo al dito lo trasforma in gelido e inamovibile marmo. La soluzione, anche in questo caso, è l’amputazione.

Anelli di vita/anelli di morte
Tra le molteplici virtù ascritte agli anelli ci sono anche quelle di cagionare la morte oppure di mantenere in vita, magari aiutando a sanare una certa malattia o preservando dalle ferite.
Tipico nelle fiabe di magia è l’anello che la persona in partenza lascia a chi rimane, un anello che garantisce un contatto con chi è lontano e che annerendosi o cambiando colore avverte se questi è ancora vivo oppure si sia cacciato in qualche pericolo.
In alcune versioni di Biancaneve (ATU 709), il “sonno di morte” viene indotto nella giovane facendole indossare un anello e quando questo viene sfilato, l’eroina resuscita. De Nino, per esempio, ci segnala una variante di Sulmona della fiaba La bella Venezia (pp. 256-257) in cui una vecchia consegna alla ragazza un grappolo d’uva che le toglie il respiro, quindi le mette un anello nero al dito che la rende inerte.
Nella fiaba corsa L’anneau de la princesse (L’anello della principessa) tutta l’azione prende il via da un anello magico che una fata regala alla principessa il giorno della sua nascita. Si tratta di un dono decisamente ambivalente poiché, ci viene detto, sta scritto sul libro del destino che se lo perde senza più ritrovarlo, dovrà morire nel giro di un anno.
Gli anelli che rendono invincibili o proteggono il portatore da ferite, dalle armi, dal fuoco e perfino dall’annegamento sono particolarmente diffusi nei romanzi cortesi francesi del XII secolo (e nelle loro traduzioni/rielaborazioni inglesi e italiane): sono presenti, per esempio, in Floire et Blancheflor, Yvain e Roman de Troie.
Ma neppure a quei tempi era sempre così, a volte gli anelli avevano funzioni molto più estetiche che salutistiche: Ogier ottiene da Morgana un anello che null’altro fa se non ringiovanirlo.
In ogni caso, gli anelli sono stati impiegati come vere e proprie “medicine” per millenni (e non mi sento di escludere che qualcuno lo faccia ancora ora). Conosciutissimo fino a pochi anni fa anche qui in Italia era, per esempio, l’impiego della fede d’oro per guarire l’orzaiolo.
La credenza nei poteri curativi degli anelli era diffusa in tutti gli strati sociali. Ancora nel 1815 il London Medical and Physical Journal – quindi non il primo pirla che passava per strada – riportava un caso in cui si riteneva che un particolare anello d’argento avesse curato l’epilessia dopo che altri rimedi avevano invece miseramente fallito. Secondo la superstizione l’anello in questione doveva essere ottenuto fondendo delle monete d’argento ottenute come offerta sulla soglia di una chiesa la domenica di Pasqua da una persona che era stata presente alla funzione. Un’alternativa laica prevedeva che uno scapolo raccogliesse da altri cinque scapoli una moneta da mezzo scellino ciascuno e le portasse a fondere da un fabbro anch’esso scapolo. Il problema vero era che, affinché l’anello funzionasse, nessuno dei giovanotti implicati doveva avere la minima idea di come sarebbe stato utilizzato il denaro.
Per curare gli attacchi epilettici in Gran Bretagna per un certo periodo hanno furoreggiato i cosiddetti cramp-rings, anelli che derivavano la loro virtù dal solo fatto di essere stati benedetti del re di turno e che erano considerati rimedi sopraffini anche contro le convulsioni e le paralisi. La pratica di benedire anelli efficaci contro la “malattia di San Giovanni” (morbus Sancti Johannis, altro nome dell’epilessia) sopravvisse fino al regno di Maria I d’Inghilterra, la famosa Bloody Mary (XVI secolo), sebbene non si sappia di preciso quando sia iniziata. Polidoro Virgili, che pubblicava nel 1534 la sua Anglica Historia, fa risalire la consuetudine a Edoardo il Confessore (XI secolo) e ci racconta questa leggenda. Re Edoardo stava ritornando a Westminster quando incrociò un mendicante che gli chiese la carità in nome di San Giovanni Evangelista, santo a cui il sovrano era particolarmente devoto. Edoardo non aveva spicci nelle tasche, perciò gli consegnò uno dei suoi anelli. Poco tempo dopo, due pellegrini inglesi che si trovavano nei guai in Terra santa, vennero soccorsi da un uomo misterioso che si rivelò essere nientepopodimeno che San Giovanni. Questi diede loro un anello e disse di portarlo a Edoardo, avvisandolo che entro sei mesi sarebbe stato in Paradiso a cantare con gli angeli. Quando i pellegrini ritornarono e narrarono l’accaduto al monarca, Edoardo riconobbe l’anello: era quello che aveva donato al mendicante. Alla morte di Edoardo, “l’anello del pellegrino” fu prima seppellito con lui, quindi fu spostato e venerato come una reliquia perché sembrava che chiunque lo toccasse, guarisse immediatamente da paralisi ed epilessia. Da quel momento in avanti, i re inglesi – che come successori di Edoardo ne avrebbero ereditato i poteri – presero dunque l’abitudine di consacrare il Venerdì Santo quelli che divennero poi noti col nome di cramp-rings.

Per proteggere puerpera e neonato dagli attacchi delle fate si consigliava, invece, di indossare un anello decorato con una bufonite (ottimo, fra l’altro, anche per guarire dai problemi renali, sempre che il paziente avesse bevuto l’acqua in cui tale anello era stato precedentemente immerso). La bufonite aveva molte virtù ed era particolarmente apprezzata come antidoto contro l’avvelenamento. Si raccomandava, per esempio, di incastonarla in modo che venisse portata a diretto contatto con la pelle poiché avrebbe avvertito della presenza di veleno producendo una sensazione di calore.
Se vi state domandando che diamine sia la bufonite, ve lo spiego subito: non è una vera gemma, ma una pietra che secondo leggenda avrebbe dovuto trovarsi all’interno della testa dei rospi. La parte più complicata di tutta questa faccenda è che secondo alcuni doveva essere donata spontaneamente dal rospo vivo, altrimenti si sarebbe rivelata inutile. Similmente a ciò che è accaduto con il corno dell’unicorno, il fatto che non esistesse nel mondo reale non ha certo impedito a mercanti ricchi di inventiva e spregiudicatezza di mettere in piedi un notevole commercio. Molte delle pietre che venivano spacciate, durante il medioevo e oltre, per bufoniti erano in realtà i denti fossili di un pesce ormai estinto della classe degli Actinopterygii, vissuto a cavallo fra Giurassico e Cretacico.
Non sempre, però, gli anelli sono stati usati con l’intenzione di fare del bene. Nelle Cronache di Enguerrand de Monstrelet (XV secolo) è riportato un aneddoto alquanto curioso. Pare che il duca di Borgogna, cercando di giustificarsi per aver commissionato nel 1407 l’assassinio Luigi I d’Orléans (o di Valois, che dir si voglia), si difese accusando il morto di cospirazione contro il Re di Francia (che poi sarebbe stato Carlo VI, il fratello schizofrenico di Luigi). La suddetta, presunta, cospirazione implicava la magia nera, dei diavoli compiacenti e un anello. Il fattaccio si sarebbe svolto come segue. Un monaco connivente avrebbe evocato due entità maligne a cui sarebbe stato consegnato un anello. Queste lo avrebbero trasportato chissà dove, si presume all’inferno, per poi riapparire una mezz’oretta dopo e riconsegnarlo al monaco. L’anello era diventato di color scarlatto e le istruzioni erano di inserirlo nella bocca di un uomo morto, probabilmente mediante una particolare cerimonia che però non viene specificata. Tutto ciò avrebbe dovuto garantire la dipartita del regnante.

Gli anelli e l’amore
Tra le tante leggende fiorite intorno alla figura di Carlo Magno ce n’è una, giunta a noi in più versioni, che ha come fulcro della vicenda un anello magico.
Si tratta di una storia diffusa localmente, perlopiù in area germanica, che mira a spiegare la predilezione di Carlo per Aix-la-Chapelle, la cittadina che in italiano conosciamo come Aquisgrana.
In seguito a un favore reso, Carlo riceve da una serpe fatata un anello (o una gemma che poi viene incastonata in un anello) che ha il potere di attrarre l’amore del primo proprietario (in questo caso, Carlo Magno) verso chi ne viene successivamente in possesso. L’imperatore dona il monile a sua moglie e da quel momento non riesce nemmeno più a staccarle gli occhi di dosso. Fin qui tutto bene, solo che poi la donna si ammala gravemente e, temendo che un’altra prenda il suo posto, nasconde l’anello sotto la lingua. Quando l’amata consorte muore, Carlo sviluppa un attaccamento morboso verso il suo cadavere, tanto da farla imbalsamare per poterla avere sempre al proprio fianco. Questa situazione pare vada avanti per diciotto anni finché uno dei sudditi di Carlo non scopre la presenza dell’anello fatato nella bocca del cadavere e lo rimuove (perché questo tizio andasse a ravanare negli orifizi di un corpo semi-putrefatto, non è dato sapere). Carlo immediatamente si allontana, anche un po’ disgustato, dalla salma della moglie per dirigere tutte le sue attenzioni sull’uomo che ora possiede l’anello. Questi, non sapendo bene come comportarsi, si disfa del pericoloso gioiello gettandolo in una fonte (o un lago) che, guarda caso, si trova ad Aquisgrana: ed ecco spiegato perché l’imperatore franco abbia amato così tanto quel luogo4.
Il fatto che il cadavere della regina venisse trattato come se la donna fosse ancora in vita ricorda da vicino un altro episodio simile, per metà accadimento storico e per metà pura fantasia, tanto che, nel corso del tempo, il racconto dell’uno potrebbe aver influenzato l’altro. Pietro I di Portogallo (1320-1367) fece riesumare e dichiarare regina postuma Inés de Castro, sua amante storica fatta assassinare dal di lui padre che non approvava le loro nozze. La leggenda vuole che Pietro avrebbe obbligato tutta la corte a rendere omaggio ai resti della donna sistemati sul trono.
A proposito di matrimonio, l’anello su cui si è più chiacchierato nella società occidentale è sicuramente la vera o fede nuziale.
È nota la credenza secondo cui la fede venga portata all’anulare sinistro perché si pensava che da lì passasse un nervo o una vena – la vena amoris – direttamente collegata con il cuore. Macrobio (Saturnalia, VII, 13), per esempio, attribuisce questa nozione ai sacerdoti egizi. Però pochi rammentano come lo stesso Macrobio citi altre teorie circa l’usanza di indossare anelli all’anulare. La spiegazione più semplice, infatti, potrebbe essere che lo si fa per mera comodità perché l’anulare, e in special modo quello della mano sinistra, è statisticamente il dito meno usato, quindi il più adatto per conservare un gioiello prezioso (sentimentalmente e/o economicamente, non fa differenza).
Jones, però, ci ricorda un’altra antica convinzione ovvero che l’anello matrimoniale sia posto all’anulare sinistro della sposa per denotare la sottomissione della moglie al marito in quanto la mano sinistra significa dipendenza, mentre al contrario la destra viene tradizionalmente collegata all’autorità e all’indipendenza (ovviamente questo ragionamento può avere senso solo se l’uomo non indossa l’anello a sinistra, altrimenti basandoci su questa stessa identica tesi non potremmo che interpretarla come una sottomissione vicendevole dei partner)5. Per avvalorare questa tesi si sono scomodati addirittura artisti del calibro di Raffaello e del Ghirlandaio che nelle loro rappresentazioni dello sposalizio della Vergine avrebbero messo la fede alla mano destra della Madonna proprio per rimarcare la sua superiorità – in quanto Deipara – nei confronti di San Giuseppe. Peccato, però, che non venga ritratta così ogni volta.
È infatti errato pensare che la vera sia sempre stata portata all’anulare o sulla mano sinistra: nell’Inghilterra del XVII secolo spesso la si metteva sul pollice, mentre in Francia, dal XI al XV secolo, sul dito medio destro e anche al giorno d’oggi esistono molteplici eccezioni.
Se già dall’antichità si era soliti regalare anelli come pegni d’amore, l’impiego di anelli da scambiarsi durante la cerimonia nuziale ha iniziato lentamente a diffondersi dal XIII secolo, per poi diventare comune dall’Ottocento in avanti.
Un discorso diverso va fatto per l’anello di fidanzamento, cioè quel monile che attesta una promessa di matrimonio. Mi riferisco qui in particolare all’anello con diamante che film e serie televisive ci hanno insegnato essere un requisito imprescindibile per ogni proposta di matrimonio che si rispetti. Nonostante sembri una tradizione arcaica e radicata, è a ben vedere una “mitologia” di nascita recente che prende l’abbrivio da oculate campagne di marketing di una nota azienda, la De Beers. La necessità di spingere sulle vendite dei diamanti e contemporaneamente aumentarne il valore, portò la De Beers ad affidarsi nel 1939 all’agenzia pubblicitaria N. W. Ayer. Fu una loro copywriter, Mary Frances Gerety, a coniare nel dopoguerra il fortunatissimo “Un diamante è per sempre”, che ancora oggi sentiamo ripetere anche al di fuori dell’ambito pubblicitario.
Chissà cosa ne avrebbe detto Thomas Fuller (un ecclesiastico inglese del XVII secolo) secondo cui «sposarsi con un anello di diamanti preannunciava il male, perché l’interruzione del cerchio presagiva che il rispetto reciproco tra gli sposi avrebbe potuto non essere perpetuo»6.
Al giorno d’oggi il fidanzamento in sé e per sé e gli anelli ad esso collegati sono perlopiù simbolici e vissuti in maniera non vincolante, giusto per adeguarsi a una presunta antica tradizione. Ma non è sempre stato così. Un tempo, la faccenda era trattata in maniera molto più seria e lo scambio di anelli era percepito come un vero e proprio contratto7 di cui il matrimonio non era altro che la conseguente ratificazione. Se ti fidanzi, ti sposi. Punto. E il dono di un anello di fidanzamento era, in un certo senso, equivalente al matrimonio poiché all’uno doveva inevitabilmente far seguito l’altro.
Tale concetto è ben sviluppato in una storia narrata nel 1125 da Guglielmo di Malmesbury (De gestis regum anglorum, II, 205) che piacque così tanto da essere ripresa e rielaborata un’infinità di volte da un notevole coacervo di autori.
Un giovane e ricco patrizio romano per alleggerire gli stomaci gravati dai bagordi del banchetto di nozze, decise di giocare a palla con i convitati. Al fine di non perdere o sciupare l’anello matrimoniale, lo infilò al dito di una statua di bronzo che si trovava lì nei paraggi. Terminata la partita, cercò di riprendere la fede, ma gli fu impossibile perché la statua aveva ripiegato il dito verso il palmo e per quanto penasse e si sforzasse per estrarlo, non poté riuscirci. Fece finta di niente e non disse nulla a nessuno con l’intenzione di ritornare a notte fatta e lavorare con più calma. Immaginatevi la sua sorpresa quando, ripresentatosi al cospetto della statua quella sera stessa scoprì che la mano era nuovamente distesa ma l’anello era sparito. Tuttavia cercò di non pensarci e tornò dalla moglie per consumare la prima notte di nozze. Solo che, appena si fu avvicinato alla donna, avvertì qualcosa di nebuloso e denso frapporsi fra di loro, mentre una voce rivelava l’identità dell’invisibile e molesta presenza. Era Venere – dea a cui, evidentemente, era dedicata la statua bronzea – che sosteneva dovesse giacere con lei, poiché mettendole l’anello al dito l’aveva sposata. Il giovane capì di averla combinata grossa e passò il resto della notte insonne, senza osare far nulla. Trascorse così diverso tempo e ogniqualvolta l’uomo cercava di allungare le mani sulla sua sposina, Venere si metteva in mezzo impedendogli di copulare. Alla fine, spronato dalle lamentele della moglie, decise di consultarsi con alcuni suoi parenti i quali lo indirizzarono verso un prete di nome Palumbo, famoso per essere un necromante di tutto rispetto, in grado di comandare le schiere infernali. Pattuito il prezzo da pagare, Palumbo consegnò al giovane una lettera e gli diede istruzione di recarsi a un certo quadrivio di notte. Là avrebbe visto sfilare una serie di figure umane di ogni età, sesso ed estrazione sociale. Non doveva parlare con nessuno, nemmeno se qualcuno gli avesse rivolto la parola. A chiudere la spettrale processione ci sarebbe stato un demone alto e corpulento seduto su di un carro: a lui avrebbe dovuto affidare la lettera, sempre serbando il più completo silenzio. Il giovane fece come gli era stato detto e il demone, dopo aver letto il contenuto della missiva ed essersi lamentato dell’impertinenza di Palumbo, mandò due suoi sottoposti da Venere a recuperare l’anello. Da quel giorno gli sposini furono liberi dalle indesiderate attenzioni della dea.
Dunque in questa storia la dea romana è collegata, se non equiparata, a dei demoni. Ma bastano pochi anni affinché la parte qui affidata a Venere venga ricoperta dalla Vergine. Risalgono infatti agli inizi del XIII secolo i primi racconti di questo tipo. La statua a cui viene infilato l’anello è quella della Madonna che si dimostra gelosa quanto Venere, seppure non esiga, per ovvie ragioni, favori sessuali ma che il ragazzo dedichi la sua intera vita a Lei. La vera differenza fra la dea pagana e Maria è che quest’ultima riesce sempre a vedere soddisfatte le proprie pretese, poiché il giovane, invariabilmente, alla fine decide di abbandonare la sposa in carne e ossa e di prendere i voti.
Che ci crediate o meno, qualcosa di molto simile poteva succedere davvero. Vissuto a cavallo fra il XII e il XIII secolo, Edmondo di Abingdon (detto anche di Canterbury o, ancor più semplicemente, Rich, ma chiamato dai francesi Saint Edme), da ragazzo, prima ancora di diventare arcivescovo di Canterbury, fece voto di celibato e si consacrò, anzi, letteralmente si sposò con la Madonna. Fece infatti preparare due anelli con sopra inciso “Ave Maria”, ne indossò uno e mise l’altro al dito di una statua della Vergine che si trovava in una chiesa di Oxford.Tale pratica era comune soprattutto fra le nobildonne rimaste vedove che indirizzavano in questo caso il proprio casto amore non alla Madre, ma al Figlio, similmente a quanto accadeva (accade) alle suore che diventano “spose di Cristo”.
Non erano poi così rari questi matrimoni mistici e non sempre erano gli esseri umani a fare il primo passo. In molte leggende agiografiche si racconta di come pure Gesù abbia elargito anelli a destra e a manca. Fra tutte le sue “fidanzate”, quella più famosa è senza dubbio Santa Caterina di Alessandria.
A questo punto, vi sarà probabilmente tornata alla mente La sposa cadavere (Corpse Bride) di Tim Burton perché la vicenda narrata in questo film di animazione del 2005 ricorda da vicino quella della nostra statua. Sulla genesi e lo sviluppo del soggetto cinematografico si è però creata una sorta di moderna leggenda metropolitana alimentata da dicerie, rielaborazioni fantasiose e maldestri copia-incolla.
Iniziamo sottolineando che sembrerebbero non esserci in merito dichiarazioni ufficiali del regista o di qualcuno dei suoi collaboratori (chissà, forse per problematiche legate al copyright?). Su IMDb (Internet Movie Database) sono indicati come autori della sceneggiatura John August, Caroline Thompson e Pamela Pettler ma non viene specificato se si tratti di un’opera originale o derivata. Si dice (e qui la fonte dovrebbe essere The Jewish News of Northern California) sia stato il produttore esecutivo Joe Ranft (deceduto prima dell’uscita del film) a far conoscere la storia – indicata come una leggenda ebraica – a Tim Burton. Anche prendendo l’informazione per buona, rimane comunque il problema di quale sia la storia sottoposta a Burton e da dove sia saltata fuori. E qui comincia il delirio: ci sono varie versioni che giocano su tre o quattro elementi fissi, a volte mescolando e confondendo i già miseri dati disponibili.
Fra le teorie più gettonate c’è quella che sostiene che Corpse Bride si basi su di una leggenda russo-ebraica ottocentesca, ma il problema è che non vengono mai citate le fonti di questa informazione. Perfino Lucia Baroncini nel suo articolo è costretta con rammarico a constatare che tale leggenda è riportata solo online e senza indicazioni bibliografiche (nota 2, p. 292). Magari esiste, per carità, ma per quanto mi è dato sapere non ci sono prove a supporto di tale affermazione tranne accenni desunti qua e là sul web.
Sembrerebbe più probabile che tutto sia scaturito da una raccolta pubblicata nel 1988 dal folklorista Howard Schwartz. Lilith’s Cave: Jewis Tales of the Supernatural, al cui interno è presente il racconto intitolato The Finger che parrebbe avere molto in comune con la Sposa cadavere. Tale racconto è presentato come una rielaborazione di una storia contenuta in un libro ebraico del XVII secolo, Shivhei ha-Ari8, ovvero una raccolta di leggende sulla vita e le opere di un importante rabbino del XVI secolo, Isaac Luria, fondatore della cabala lurianica. Purtroppo non ho avuto accesso allo Shivhei ha-Ari, quindi non posso valutare quanto possa essere stato pesante l’adattamento che lo stesso Schwartz dichiara di aver fatto.
In The Finger, comunque, la vicenda si svolge in Galilea, a Safed, e il ragazzo protagonista si chiama Reuven. La notte prima delle nozze, in una specie di addio al celibato gotico, il promesso sposo e altri due giovanotti si inoltrano, ridendo e scherzando, nella fitta foresta che circonda la città. A un certo punto vedono spuntare dal terreno uno strano oggetto che all’inizio credono essere una radice, ma poi capiscono essere un dito. Spronato dagli amici, Reuven infila la fede al dito misterioso e, non pago, pronuncia per tre volte «Tu sei promessa a me» che è l’esatto rito prescritto dalla sacra Legge in questi casi. Non appena termina di pronunciare le fatidiche parole, il terreno si apre e ne esce il corpo di una ragazza avvolto in un sudario stracciato. Questa fissa i propri occhi morti su Reuven e grida «Maritino mio!». I tre se la danno a gambe levate e si barricano nelle rispettive case. L’indomani, ancora scossi, decidono di mantenere il segreto su ciò che è successo solo poche ore prima e Reuven si prepara per il matrimonio. Quando la cerimonia inizia, la morta si presenta per rivendicare i suoi diritti e scatena il panico generale. Il rabbino, una delle poche persone che non scappa né sviene, apprende che il rituale era effettivamente stato compiuto così come previsto e dunque decide di convocare la corte rabbinica per dipanare la questione. La sentenza viene resa nota qualche giorno dopo: i famigliari di Reuven e della sposa (quella viva) avevano promesso i loro figli prima ancora che nascessero, quindi questo contratto ha la precedenza, tanto più che Reuven aveva “sposato” la salma del bosco solo per scherzo, senza averne l’intenzione. Inoltre, non si è mai sentito che un morto potesse maritare un vivente, perciò tale matrimonio è da considerarsi nullo. La sposa cadavere, che era stata presente per tutto il dibattimento, appena sentito ciò collassa a terra ritornando ad essere completamente morta. Allora il rabbino dà ordine di sotterrare nuovamente i resti assicurandosi di farlo seguendo i giusti riti e seppellendola a una profondità maggiore in modo che certi problemi non si ripresentino più.
Sempre parlando di nozze, ne esistono, poi, di speciali durante le quali non si scambiano gli anelli né con esseri umani (vivi o morti), né con esseri divini. Mi riferisco nello specifico allo sposalizio del mare, ovvero la cerimonia durante la quale il doge annualmente suggellava il proprio matrimonio con l’Adriatico lasciando cadere in acqua un anello. Narra la leggenda che il rito sia stato eseguito per la prima volta nel 1177 dal doge Sebastiano Ziani a seguito della vittoria su Federico Barbarossa. Si dice anche che proprio uno di questi anelli fu profeta dell’imminente caduta della Repubblica di Venezia quando, un anno dopo averlo gettato in mare, l’anello del doge venne ritrovato all’interno di un pesce servito alla sua tavola. Questa tradizione potrebbe aver avuto origine per imitazione da una storia ancor più antica, quella di Policrate, tiranno di Samo, così come ce l’ha tramandata Erodoto (Storie, III, 40-43). Amasis, sovrano d’Egitto alleato di Policrate, paventando che la continua fortuna del tiranno l’avrebbe prima o poi reso inviso agli dèi, gli suggerì di disfarsi dell’oggetto più prezioso che aveva. Policrate allora decise di lanciare in mare un anello d’oro, ma a quanto pare le divinità non gradirono il suo sacrificio perché, poco tempo dopo, lo sfarzoso monile venne ritrovato nelle interiora di un pesce. Appena Amasis lo venne a sapere, ruppe l’alleanza convinto che l’ira degli dèi si sarebbe presto abbattuta su Policrate e che quindi per lui era decisamente meglio stargli alla larga.
Non sempre, quindi, gli anelli sono forieri di buona sorte.
Una leggenda scozzese narra dell’erede di una nobile famiglia che era in procinto di sposare una giovane danese. Non si sa se per sbadataggine, agitazione o noncuranza, quando arrivò il momento fatidico della cerimonia si accorse di non avere con sé l’anello e fu costretto a prenderlo in prestito da uno dei presenti. La giovane impallidì quando vide che le veniva infilato al dito un mourning ring (un anello da lutto, di quelli che si indossano per ricordare un caro estinto) con tanto di teschio e ossa incrociate e interpretò la circostanza come un presagio. Ne rimase talmente impressionata che si ammalò gravemente e morì nel giro di un anno.
E se, curiosamente, nello Yorkshire una fede nuziale prestata era invece ambasciatrice di fortuna, lo stesso non si può dire nel caso la stessa si fosse rotta: ancora nell’Ottocento, tali incidenti venivano interpretati come un segno divino che chi quell’anello lo indossava sarebbe presto diventato vedovo.
Risolleviamoci ora gli animi con un po’ di salacità rinascimentale.
Gli anelli, da che mondo è mondo, sono stati sempre associati ai genitali femminili. Volete un esempio? Eccovelo.
Poggio Bracciolini che, vorrei ricordarlo, fu un serissimo umanista e secretarius domesticus di vari Papi nonché cancelliere della Repubblica fiorentina, nel 1470 pubblicò un libro di “facezie” – in pratica una sequela di storielle politicamente scorrette – in cui diede tutto se stesso per farci cambiare l’idea che potevamo esserci fatti su di lui. Nel suo Liber facetiarum narra di un tale di nome Francesco Filelfo (n. 133, Visio Francisci Philelphi) così geloso della moglie da tenerla costantemente sott’occhio per paura che la donna potesse tradirlo. Una notte, vede in sogno un demone che lo rassicura dicendogli di conservare con cura un anello che gli porgeva perché finché il suo dito fosse stato nell’anello, sua moglie non avrebbe mai potuto giacere con un altro uomo senza che lui non lo venisse a sapere. Filelfo, felice, si risveglia e scopre che il suo dito è infilato nella vagina della moglie. Fine.

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1Gige è una figura storica su cui, come accaduto a molti altri sovrani dell’antichità, sono fiorite varie leggende. Fra le diverse versioni a noi giunte, solamente nel racconto di Platone si parla di un anello che rende invisibile il suo portatore. Gige, tra l’altro, era anche il nome di uno degli Ecatonchiri, i giganti con cento braccia e cinquanta teste figli di Gaia e Urano.
2Non dimentichiamo che Platone raccontava questi “miti” con un fine simile a quello ricoperto dalle parabole nei Vangeli, ovvero impartire una lezione. Nello specifico, la storia di Gige serviva a illustrare la teoria secondo cui, se si ha la possibilità e si è sicuri di farla franca (dal biasimo altrui o dalla legge) sia i buoni e che i malvagi si comportano nella stessa maniera, cioè perseguono unicamente i propri interessi, anche a scapito di quelli altrui. Teoria riassumibile con il noto proverbio: l’occasione fa l’uomo ladro.
3Per un approfondimento sul guardare di sbieco, il malocchio e gli occhi in generale vi rimando al mio articolo Occhi e malocchi – Spore (wordpress.com)
4Questo riassunto è basato sulla versione della leggenda così come riportata da G. Paris (pp. 383-385), G. F. Kunz (pp. 300-302) e L. Baroncini (pp. 294-296), ma ne esistono altre che se ne discostano per alcuni particolari. La maggior parte tende a sorvolare del tutto sul pur vago accenno a un rapporto omoerotico fra Carlo e il suo sottoposto che qui, invece, troviamo. La storia è stata narrata, tra l’altro, anche da Petrarca (Epistolae Familiares, I, 4). Secondo Gaston Paris (Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari, XVI, 1897, pp.587-588), la donna amata anche dopo la morte sarebbe stata Fastrada, la quarta moglie di Carlo (ma Paris la indica come terza).
5Sia chiaro, qui non si vuole negare il fatto che in vari tempi e luoghi siano esistiti (ed esistano tuttora) uomini che sostengono l’inferiorità della donna e la sottomissione della moglie al marito, ma spiegare così la consuetudine dell’anello posto all’anulare sinistro sembra più un tentativo di trovare conferma e convalida delle proprie pregresse idee che la ricerca dell’origine di una tradizione.
6Citazione tratta da Kunz, p. 227.
7Non a caso gli anglofoni utilizzano il termine engagement che significa proprio impegno, promessa, contratto.
8Essendo traslitterata dall’ebraico, a volte anche la grafia di nomi propri e titoli può variare.


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