Purity, dove sei?


Custer era nudo sul letto. I sapori e i profumi del sesso erano ancora tangibili all’interno della tenda logora. Facevano da collante tra lui e Purity, che si era appena alzata e rovistava in un vecchio baule. Lui non le staccava gli occhi di dosso. La ragazza si voltò, riagganciando la connessione visiva con l’amante.
«Che ne dici di questa? Non dovresti avere problemi a venderla» disse Purity mostrandogli una delle stampe disegnate da lei.
«Ok» rispose Custer.
«Quanto entusiasmo. Guarda che ci campiamo con queste cose: dai su, un po’ di partecipazione!» aveva un sorriso stiracchiato, ormai rassegnata al suo comportamento poco propositivo «e ricordati, hai solo quella in vendita. Quindi non farti venire l’idea di vendere nessuno dei miei pennelli o matite. È proibito vendere oggetti magici.» Ne sfoderò uno, tirandolo fuori da una sorta di cartucciera in pelle che le avvolgeva i fianchi, come quelle usate dalle truccatrici, e dopo aver intinto le setole sulla tavolozza, mischiò alcuni colori insieme, si voltò verso una tela bianca appoggiata su un cavalletto. Chiuse gli occhi e sospirò forte. Come una chiazza d’olio nel mare, la tempera veniva sprigionata dal pennello, e ogni colore prendeva posizione con una frenetica danza che ricordava il tribolare di un esercito di migliaia di formiche. Nel giro di pochi secondi, apparve un paesaggio realizzato nei minimi dettagli. Ogni molecola di pigmento aveva occupato un preciso spazio sulla tela . Nonostante ci fosse abituato, Custer osservava meravigliato il prodigio manifestarsi . Dopodiché si alzò e si avvicinò a Purity stampandole un bacio sulle labbra. «Ma certo amore mio, tranquilla.»
Uscì dalla tenda con la stampa arrotolata sotto al braccio. La terra era incandescente, cotta , l’aria era pregna di ogni genere di odore: incensi, cibi etnici, sudore e sesso. Venne inghiottito dall’enorme tendopoli allestita attorno a uno dei palchi più grandi che avesse mai visto. Il Festival del Sogno volgeva al termine. Sul palco campeggiava già il logo degli headliner, i King Sair: il volto di un leone il cui cantante ne indossa una maschera. Tra le migliaia di persone non fu difficile per Custer trovare dei compratori. Quattro ragazzi con delle creste colorate. Custer li avvicinò sventolando la stampa davanti ai quattro che incuriositi si fermarono ad osservarlo. Non era granchè come mercante, ma provava sputacchiare qualche parola di presentazione.
«Bello questo disegno. Chi hai detto che lo ha fatto?» chiese uno dei quattro.
«La mia ragazza» rispose Custer.
«Bellissimo. Però c’è un problema. Noi siamo quattro, ne hai mica altri tre?»
Custer si bloccò per un istante e rispose con un’espressione dispiaciuta. «Purtroppo ho solo questo.» Poi aggiunse: «Però se mi seguite vi porto nella mia tenda, magari troviamo qualcos’altro.»
Quando Custer entrò con quegli estranei, Purity sgranò gli occhi come a dirgli «che cazzo hai combinato?». Colta alla sprovvista dagli eventi, non ebbe neanche il tempo di reagire e vide uno degli uomini colpire Custer alla base della nuca facendolo cadere a terra con un tonfo. Gli altri tre si avventarono addosso a lei come un branco di lupi.
«Disegni fin troppo bene per stare relegata in una tendopoli. Ho grandi piani per i tuoi pennelli… e per te.» disse uno di loro sghignazzando.
Le serrarono le braccia con entrambe le mani e la portarono via.
Era chiusa in una scatola di carne cattiva, in grado di celare l’orrore che si stava consumando al suo interno. Le avevano sigillato la bocca con del nastro americano e si muovevano all’unisono come aerei acrobatici. Passavano tra le tende, preferendo le strade meno trafficate. In lontananza, nei pressi di un ingresso laterale del festival, sostavano un paio di macchine della polizia che ignoravano completamente la scena. Camminando, a uno dei tizi con la cresta venne in mente di toglierle le mutande. Mentre le sfilavano l’intimo dalle gambe martoriate, Purity perse l’equilibrio e cadde a terra, i quattro aggressori vacillarono e allentarono la presa. Lei raccolse le ultime energie che le erano rimaste e si guardò attorno con smania. Vide un sasso, allungò il braccio e riuscì ad agguantarlo. Si divincolò dalla presa ormai meno opprimente dei quattro orchi, riuscì a coordinarsi con un singolo movimento di spalla e braccio e scagliò la pietra, questa si infranse sul parabrezza di una delle volanti, gli agenti notarono il trambusto e nel giro di un attimo avevano messo tutti quanti in stato di fermo. Gli aggressori erano imbambolati e senza via di fuga furono ammanettati e gettati in un’auto. Intanto, un agente staccava il nastro americano dalla bocca di Purity, strappandole via la pelle, si sfogò con un urlo che sapeva di dolore e liberazione, dopodiché fu ammanettata anche lei e chiusa in un’altra macchina.

Quando Custer riprese i sensi, s’incamminò tra le tende barcollando.
«Purity!» le sue urla si perdevano nella distesa sconfinata.
Faceva fatica ad abituare gli occhi alla luce, e il frastuono della tendopoli non faceva che aumentare il dolore alla testa. Aveva un trauma cranico probabilmente. Cercando di mettere in modo incerto un passo dopo l’altro, inciampò in quello che sembrava un osso, con ancora qualche brandello di carne attaccato. Sentì un sibilo, e poi vide un dobermann che lo fissava digrignando i denti, come una bestia satanica. Una ferita alla zampa posteriore ne aveva inzuppato di sangue il manto, rendendo il pelo lucido e iridescente come un rubino che splende al sole. Inseguito, Custer cercò di seminarlo sgusciando fra le tende in una corsa tra moribondi che aspirano all’ultimo soffio di vita. Ma la sua fuga incontrò un triste epilogo quando si ritrovò in un vicolo cieco, mentre sopraggiungeva la fiera che sembrava vomitata dal girone infernale più raccapricciante. Alzò gli occhi al cielo, accettando la sconfitta, finché notò il lucernario aperto di una roulotte e con il poco fiato rimasto si arrampicò e vi strisciò dentro. L’interno era accogliente e profumato. Il pavimento era tappezzato di materassi, cuscini e coperte. Sembrava un gigantesco letto. Custer si stropicciò gli occhi più volte, forse quello che vedeva era una conseguenza della botta subita. Invece le tre gemelle che lo fissavano erano reali. Se fosse esistito un premio per il miglior capolavoro genetico partorito da un essere umano, pensò Custer, lo avrebbero sicuramente vinto a pari merito. Tre facce perfettamente identiche che lo guardavano sorridenti, i capelli neri come penne di corvo e la pelle bianca come porcellana. Senza dire una parola, come a ripetere un rituale perfezionato nel tempo, tolsero i vestiti a Custer. Inerme e accudito, lo lavarono e lo cosparsero di unguenti. Lo massaggiarono , gli offrirono cibi saporiti e freschi. Una di loro gli infilò in bocca una pillola. Dopodiché si spogliarono a loro volta rivelando forme callipigie. I quattro si persero in un amplesso Dopodiché fu penetrato con decisione e tutta la roulotte si fece d’improvviso buia. Il groviglio di figure iniziò a levitare e l’atto corale proseguì a mezz’aria nel centro della stanza, Tra il dolore e il piacere, Custer però aveva in mente solo una cosa: Purity. Lei lo amava anche se lui non aveva nulla di magico. Era una ragazza che avrebbe potuto avere chiunque, ma aveva scelto lui, per quanto fosse avvezzo nello sbagliare. Gli venne in mente di quella volta, dopo il suo ennesimo fallimento, che Purity intinse il suo pennello sulla sua faccia, totalmente intrisa di lacrime. Quando poi lo strumento d’arte toccò la tela, realizzò un ritratto di Custer, sorridente. Come non sarebbe mai stato nella vita vera. Una volta raggiunto l’orgasmo i quattro atterrarono con dolcezza sul pavimento morbido e si addormentarono.

Purity intanto provava solo il dolore e l’umiliazione, senza il piacere. Ma nella macchina della polizia non era sola. Accanto a lei sedeva uno sconosciuto arrestato in precedenza per chissà quale motivo. Entrambi erano ammanettati dietro la schiena.
«Che ti è successo?» chiese lui.
Purity raccontò la sua storia, di Custer, dei quattro aggressori e dell’arresto, mentre il tizio la ascoltava in silenzio. Era avvolto in un completo elegante dal quale pendevano file di catene cucite a intervalli regolari sulla schiena, come una sorta di mantello. Aveva del trucco pesante sulla faccia. Appena Purity ebbe terminato il racconto, il tizio sfilò le proprie manette come fossero maniche a pipistrello e avvicinò la mano alla faccia devastata di lei. Le catene cominciarono a vibrare emettendo un debole clangore molto simile a un ronzio.
«Meriti di meglio, ragazzina. Sai cos’è l’escapologia?» Purity scosse la testa
«Diciamo che io posso farti sparire e riapparire a mio piacimento. Lontano da tutto questo, pervertiti, povertà, fidanzati di merda, che ne pensi?»
«Non saprei» disse Purity con sguardo disorientato.
«Ti sto solamente offrendo un’opportunità. Io con le mie catene, posso chiudere o aprire qualsiasi serratura, tu con i tuoi pennelli, puoi creare un mondo diverso. Sapevi che combinando le magie insieme, si può creare qualcosa di speciale?» L’individuo liberò dalle manette anche i polsi di Purity, che scivolarono in terra come fossero insaponate. La ragazza esitò, incredula.
«Ho solo sentito vecchie storie, ma non ho mai provato.» Ripensò ai racconti di sua nonna e di come un tempo la magia permetteva alle persone di esprimersi liberamente. Le singole magie si combinavano per costruire un mondo libero e perfetto. Finchè l’ignoranza di alcuni mise al bando questo dono e i coloro che lo avevano. Per non perderlo per sempre, alcuni lo nascosero in alcuni oggetti in modo da poter essere utilizzato in un epoca più illuminata. Dopodiché mise la mano nella cintura per afferrare l’unico pennello che le era rimasto in seguito all’aggressione da parte dei ragazzi con le creste.
«Tu devi solo puntare il pennello e immaginare. Al resto penserò io. Ah, dimenticavo, questa sarà l’ultima volta che li userai. Spogliati di tutto ciò che hai, solo allora sarai pronta per conquistare tutto.» Poi schioccò le dita.
Un fascio di luce avvolse le due auto della polizia, squarciandone le lamiere e riducendole ad ammassi di ferro fuso. Tutto intorno all’apoteosi di fiamme e distruzione si intravedevano chiazze carbonizzate sulla nuda terra, che una volta erano esseri umani. Nella desolazione, nessuna traccia di Purity, né dello strano individuo.

Ma tra quelle migliaia di persone, che speranze aveva di trovarla? Sconfitto si lasciò cadere. Lo presero sotto le ascelle per evitare che la folla gli calpestasse la testa, qualcuno lo prese per le mani, altri lo presero per i piedi. Lo tirarono su in due, poi in tre, poi in quattro, prima che se ne rendesse conto e contro ogni sua volontà stava facendo stage diving. Migliaia di braccia lo sorreggevano e cominciò a fluttuare, mentre passava di mano in mano in quel mare di vite umane. Forse era quello il suo posto nel mondo, pensò, senza peso e senza sforzo.

Quando Purity aprì gli occhi, si ritrovò in quello che sembrava un camerino. Era stretta in una tuta di pelle nera, i segni delle violenze e il dolore erano spariti. Tra le mani teneva una maschera. È l’oggetto a essere magico, o è chi lo usa a infonderlo di magia? Non aveva importanza. Adesso poteva essere quello che voleva. Poi sentì bussare.
«Fra trenta secondi sul palco».

Custer arrivò fino al palco. Quelli della sicurezza lo presero e lo scaricarono ai piedi del cantante dei King Sair. Con gli occhi velati, Custer guardò verso l’alto. Il cantante scostò la maschera, quel tanto che bastava per rivelare a Custer il suo vero volto: la pelle scura e le labbra porpora di Purity. Guardò la folla, poggiò un piede su Custer e lo spinse giù dal palco, tra grida liberatorie.


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