Clizia sulla collina


«Là-bas! Là-bas!»
L’indice imbrunito dal guano punta oltre la Piscina. La cataratta gli sporca l’iride, lo sguardo del vecchio è tutto crepato da quella nebbia filamentosa, appiccicata al globo oculare.
«Dimmelo, Glauco. Non lo dirò a nessuno che me lo hai detto».
Clizia scruta attentamente l’anziano, le falangi screpolate, lo sguardo incrinato, i segni degli uncini sul viso.
«Te lo prometto, Glauco. Nessuno… ma devi dirmelo, ti prego».
Ora lui tace con le pupille spalancate verso il crepuscolo, offeso; una smania gli prende le ginocchia facendole traballare come rami spezzati. Sta frusciando. Stringe più forte il pomo del bastone, picchiandolo sul terreno racchiuso tra le gambe.
«Dimmelo, io ti credo. Ti credo da sempre, lo sai. Ho bisogno di saperlo… di sapere com’è».
Il vecchio sospende il bastone a mezz’aria, ora ha l’incendio della sera negli occhi, spalanca la bocca: saliva spessa come resina gocciola dalle labbra dischiuse. L’odore del suo fiato ricorda a Clizia l’Approdo alle Paludi, quando nel mese del Toro i fiori alimentari marciscono in superficie.
«LÀ-BAS! LÀ-BAS! LÀ-BAS!»
Mentre Clizia ridiscende il fianco della collina, sono due i rumori che dominano la valle: il fischio delle traliccianti che montano la guardia, e l’eco del vecchio: labbà, labbà, labbà. Un suono lungo, appuntito, che somiglia all’ululare di un lupo.

«Ancora a perdere tempo dal Glauco, tu?» Lilia sta pulendo le canne dei fucili subacquei, le braccia sono sporche di sangue di gabbiano fino al gomito.
«Siete state attaccate?»
La donna si blocca, studiando l’espressione della figlia. «Portami dell’acqua desalinizzata. Va’».
Quando le si riavvicina con le borracce, la madre sta masticando un tarassaco all’angolo della bocca, guarda il cielo distratta; appena Clizia si china, la madre l’abbraccia stretta e una raffica di baci le colpisce il collo, la guancia, la fronte. Clizia indietreggia, sputa, strepita: ‹«Che schifo, perché lo fai?» Cerca di grattarsi via il sangue di gabbiano con le unghie. Ha un odore pungente, sua madre dice che sa di catrame: lei non sa che cosa sia, ma trova la parola esatta. A volte, quando la madre di sua madre era piccola, più piccola di lei, quella sostanza riemergeva ancora a ondate nere, solidificandosi lungo i bordi della Piscina.
La vede ridere mentre con l’acqua si massaggia i polsi, gli avambracci: «Ci farai l’abitudine anche tu, presto». Sorride di nuovo e Clizia la trova bellissima. Le si riavvicina; piegandosi su di lei, le ammorbidisce un grumo di sangue rappreso con la lingua, intinge le dita e si disegna una croce sulla fronte. Da grande sarà come lei, lo sa.
Lilia le si accovaccia davanti, soffia il sangue sul viso per farlo seccare.
«È domani, fiore mio. Sei pronta?»
Hanno tredici anni esatti di differenza.

Aspetta l’immersione di Mezzaluna da quando ha sette anni. Vegliava sulla collina per tutta la notte fino alle prime luci dell’alba per vedere rientrare le Iniziate. Vedeva le squame brillare loro addosso come costellazioni, e le invidiava. Vedeva i loro occhi farsi acquiferi, cambiare. L’immersione faceva di te un’Iniziata, certo; ma soprattutto, le diceva sua madre quando da bambina l’accompagnava all’Approdo, faceva di te una raccoglitrice.
«Una raccoglitrice è prima di tutto una persona in grado di sopportare la visione del Fondo. Poi, con il tempo, sarai in grado di andare in missione e tornare con quello che serve alla comunità.››
«Io andrò in missione, ma subitissimo!»
«Ah, ma davvero?»
La madre le lanciava divertita uno sguardo in tralice, poi le faceva perdere l’equilibrio con una soffiata di gas a eliotropo del fucile.
«È un cammino lungo, fiore mio. Talmente lungo, che la prima qualità della raccoglitrice perfetta, è la pazienza».
Ma Clizia di pazienza ne aveva poca, o almeno solo quanto bastava per attendere il suo tredicesimo anno spiando le immersioni dalla cima della collina.
Era in questo modo, a dire il vero, che aveva stretto amicizia con Glauco: il Matto, il rinnegato, l’uomo venuto dalla Piscina, e che non ne aveva retto la visione; è questa la sua condanna, il suo contrappasso: avere per tutta la vita davanti agli occhi la visione proibita, o ciò che ne ricorda, come una nebbia infernale intrappolata nella retina. Non aveva ricevuto cure appropriate, Glauco, perché in fondo tutti pensavano fosse stato punito a sufficienza dalla Piscina per la sua empietà. L’immersione, agli uomini, non è concessa.

Gli uomini custodiscono i lupi, allevano le vacche e le capre, proteggono le galline. Gli uomini sono pochi, quindi preziosi: durante le lezioni di Passato, spiegano che la maggior parte di loro è perita a causa dell’espansione della Piscina; per questo sono fragili, e devono essere protetti in quanto portatori del seme. Clizia e le altre future Iniziate hanno dovuto passare la propria infanzia offrendo agli uomini tributi da parte delle raccoglitrici, accarezzandone gli animali, e non solo. Talvolta gli uomini si fanno toccare in un punto morbido schiacciato tra le cosce, ma le madri hanno raccomandato loro di smettere non appena lo sentono muoversi e pulsare.
Clizia odia gli uomini, i loro lupi da compagnia, la loro mollezza di carne, le loro barbe inanellate di fiori. Ha pietà dei bambini fratelli, rinchiusi nei recinti fino all’età matura, viziati dalle nutrienti con allattamenti lunghi e riposi forzati indotti dalle erbe dell’Approdo spalmate sui capezzoli.
Clizia odia gli uomini, ma vuole bene a Glauco. Vorrebbe credergli, con tutta sé stessa. Ma per farlo, Clizia ha bisogno di vedere.

Quella notte sogna. È immersa in una sostanza leggera che le fa il solletico. Indovina che sia questa la sensazione dell’acqua salina sul corpo. È nuda, senza la muta squamosa e la maschera protettiva, senza il respiratore, eppure riesce a nuotare con facilità. Zigzaga senza peso tra i tralicci degli impianti. A un certo punto il buio si fa più spesso, si spalanca dal Fondo come una voragine, come una notte senza Luna. Sente uno strano torpore alle gambe e alle braccia mentre vede risalire dal buio un corpo, un corpo umano che nuota come s’immagina nuotino le creature d’acqua salina. Riconosce Glauco: ha una corda legata alla caviglia. In fondo, trascinata per i capelli, c’è sua madre, il corpo di sua madre; un corpo coperto di piume, un corpo senza braccia, senza gambe, senza vita. Mentre apre la bocca per urlare, l’acqua si fa rossa e le entra nei polmoni, negli occhi, bruciando, e l’ultima cosa che vede prima di svegliarsi è la mandibola di Glauco, illuminata dentro come da un fuoco, che si spalanca su di lei, pronta a inghiottirla.

«Secondo te la vedremo, nel Fondo?»
«Cosa?»
Altea porta la mano in alto e sfrega il pollice sui polpastrelli.
«Ma quella era dall’alto al basso, non il contrario. Veniva dal cielo».
Le ragazzine alzano lo sguardo e lo fissano, il cielo, fino a vedere i vermi d’ombra nel bulbo dell’occhio moltiplicarsi, danzare.
«La prima che sviene perde!»
Gonfiano il petto, la testa rovesciata all’indietro, il sudore che scorre giù, dalla nuca alla schiena alle natiche. Allargano le braccia con i palmi rivolti all’azzurro violento.
Altea si lascia cadere a terra dopo qualche minuto, rotola fin sotto l’ombra di un abete. Clizia la segue piano, con passo indolente.
«Quella l’avrei voluta vedere. Sarà per i racconti delle nutrienti, ma a volte mi sembra di sapere com’è fatta. Di sentirla». Altea sporge la lingua tra i denti, preme sopra con l’indice «Qui».
Le nutrienti raccontano che prima, lì dove abitano, sotto la Vetta, bisognava stare sempre ben coperte con strati di lana e pellicce. Che dove le traliccianti s’appostano di guardia, le strutture erano sempre in movimento: portavano le persone dal Fondo, quando ancora non lo era, sulla cima della montagna, perché da sole non ci sarebbero riuscite. Dicevano che durante la stagione scomparsa, lì dove si trovano, era tutto bianco, talmente bianco da fare venire male agli occhi. Clizia, un bianco così, non riusciva a immaginarselo.
Altea sospira, s’asciuga il sudore con il polso.
«Alla Luminosa chiedo solo questo. Di vederla. Che sia lì sotto, insieme a tutto il resto».
Su tutto il resto Clizia non ha niente da dire, ne sa quanto lei. Ma di una cosa è certa: la neve, là sotto, non ci sarebbe stata.

La giornata passa lenta. Le Iniziate vengono condotte dopo il tramonto nel cuore della comunità.
A turno le madri, le sorelle e le antenate passano dall’una all’altra, seguendo la spirale in cui le Iniziate sono disposte. Ogni donna ha in mano una manciata di scaglie saline, provenienti dalla Piscina: ne appuntano sul petto di Clizia centinaia dal bagliore astrale. Il ventre delle ragazze è tigrato da solchi di sangue. Le nutrienti lo raccolgono nelle ampolle e lo mischiano alle erbe, dandone da bere un sorso ciascuna a loro, e Clizia sente il calore dal gusto di terra montarle dalla gola alla testa. Ha voglia di sfregarsi contro Altea, contro un albero, un lupo, una roccia. La Mezzaluna trema sopra la sua testa in un bagliore amputato. Cerca con lo sguardo sua madre, vuole mostrarle questa gioia pazza che la muove in su, la muove in giù, questa gioia pazza che le corre addosso come una biscia, per tutto il corpo, e sua madre è lì, nel cerchio di donne – che si stringe, si stringe – e le strizza un occhio, poi l’altro, mastica tarassaco agli angoli delle bocche: Clizia gliene conta tre, tutte fiorite di giallo.
Anche gli uomini per l’occasione possono assistere a distanza, e Clizia li osserva. Alcuni scrollano il corpo al ritmo di cembali e tamburi, alcuni piangono, altri s’addormentano contro i tronchi delle case. Vorrebbe cullarli, rassicurarli, offrire loro il seno vuoto: lei sta bene, non è mai stata meglio. Le Iniziate intorno a lei gridano, danzano, si spogliano, luccicando nella luce lunare. Vede Altea, accanto al fuoco e al centro del cerchio, mentre offre la bocca aperta alle Stelle in un girotondo estatico.

Le hanno portate sopra la Piscina, Clizia non ricorda come. È salita la Nebbia. La terra ora non è più ferma, si muove con lei, si sposta con il suo peso, sente nausea adesso, ma ha la bocca incastrata in qualcosa. Si tasta la faccia e lo sente: il respiratore aderisce su tutta la superficie, le copre la bocca, il naso, le guance, gli occhi, la fronte; perché si chiama respiratore se a lei sembra di soffocare? Ha in mano l’attivatore e a tracolla il fucile eliotropico a compressione: è quello di sua madre. Clizia pensa che allora è quello, il momento. L’immersione di Mezzaluna, la visione del Fondo, è tutto lì, e tra lei e il momento ci sono le storie, le leggende, i suoi tredici anni, la salinità.
«Ti verranno le vertigini, all’inizio, ma non avere paura: continua a scendere».
Sono lontane, molto lontane ora dai bordi, la nausea cresce, il sangue secco comincia a pruderle.
«Sarai tentata di chiedere di tornare indietro. Non farlo, fiore mio. Non ti ascolteranno».
Sono ferme, adesso? Clizia non può capirlo, il suo corpo non riesce a stare fermo e a trovare un punto d’orientamento. Vede altri catamarani intorno a lei, forse Altea è sopra uno di quelli, accanto a lei non c’è, sfiora la spalla di una ragazzina di cui non ricorda il nome e che sta tremando, un rivolo caldo le scende lungo la coscia e le zampilla sui piedi.
«Potrai attivare il lucernaio non appena avrai preso confidenza con il buio. Vedrai molte cose, cose di cui non saprai il nome. Te li insegnerò io, i nomi, uno ad uno. Per tutto c’è un nome, Clizia. Conoscere il nome ti farà avere meno paura. Ma quando sarai lì, sarà solo per vedere il Fondo, e i suoi relitti. Per conoscerlo. Evocarlo. Tutte noi veniamo da lì, perché il Fondo è una Madre Antenata come la Luminosa, e va rispettato. Tutto quello che sappiamo, e di cui abbiamo bisogno, viene da lì».

Le stanno calando una ad una, in punti diversi della Piscina perché non siano troppo vicine, all’interno della zona delimitata per le immersioni, il Pozzo. Stringe tra le mani il fucile: pensa sia un bene che a quest’ora i gabbiani dormano sazi tra le rupi. Ha un crampo all’addome.
«Un’ultima cosa, fiore mio: ricordati di non urlare».

Labbà, labbà, labbà. Si volta, cercando la voce. Sono rimaste solo in tre sul catamarano, tra poco tocca a lei.
Labbà, labbà, labbà. Nessuno sta parlando, solo le sorelle Iniziate della Mezzaluna precedente che impartiscono le ultime istruzioni, prima di baciarle sulle labbra e spingerle nell’acqua salina.

Una bocca dolcissima e fredda la sfiora. Prima di saltare, Clizia gira su se stessa, e la trova: l’ultima cosa che vede dal respiratore prima che il suo mondo sparisca è l’ombra appannata della collina.

Clizia ha gli occhi chiusi, è immersa in una sostanza leggera che le fa il solletico.
Clizia ha gli occhi chiusi, attiva il respiratore, i pesi alla cintura la portano in basso, sempre più in basso.
Clizia ha gli occhi chiusi, pensa alla pupilla vitrea di Glauco, e per un attimo si vede ancora lì, con lui, di anno in anno, in cima alla collina, ad aspettare, ad aspettarsi. Eccola, la bambina da lontano si riconosce, si indica. L’aspettava, l’ha sempre aspettata. La Clizia bambina la indica, si indica, indica Clizia l’Iniziata, che riemerge con la luce dell’alba. Vorrebbe già essere lì, tra quelle schiere di donne anfibie, scintillanti come metalli preziosi, per voltarsi e salutarla.

Clizia ha gli occhi chiusi. Li apre. Vede.


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