Gli scomparsi


Se c’è una cosa che lo rende nervoso è avere ospiti a cena. Per quanto pulisca l’appartamento, per quanto se la cavi tra i fornelli, per quanto buono possa essere il vino che è andato a comprare, non si sentirà mai a suo agio come immagina si sentano i suoi commensali quando invitano lui.
Anche adesso che la cena è finita ed è solo in cucina a preparare le coppette gelato, non riesce a non pensare che quei quattro, di là in sala da pranzo, abbiano trovato l’arrosto troppo secco o la pasta aglio e olio non abbastanza piccante. Del resto, fino a un minuto fa stavano ridendo a crepapelle, e adesso l’unico rumore che risuona nella casa sono le note di Kind of Blue di Miles Davis.
Ecco. Ecco, lo sapevo. Si stanno annoiando.
Riempie di fretta le ultime due coppette, col rischio di sbagliare gli abbinamenti (quante combinazioni possono dare crema, stracciatella, arachide tostata e pistacchio?) e corre in sala annunciato dal rumore di coppette e cucchiaini che ballano sul vassoio ma, una volta attraversata la doppia porta di vetro, non trova nessuno.
«Ragazzi?»
Dev’essere uno scherzo. Si stavano talmente annoiando che hanno dovuto inventarsi questo giochino.
«Dai, ragazzi. C’è il gelato. Si squaglia tutto».
Si guarda attorno d’istinto, come un cervo in una radura, ma non c’è nessun cacciatore in agguato. Si sono volatilizzati. Va ad alzare le tapparelle del balcone per vedere se magari si sono nascosti lì, ma niente da fare. Che dalla noia si siano addirittura buttati di sotto? Non è possibile. L’arrosto era freschissimo e il vino uno spettacolo. Miles Davis, poi, è perfetto come sottofondo. Ma dove sono? Di guardare giù in strada non ne ha il coraggio: abita all’ottavo piano, se si fossero buttati si sarebbero sfracellati. Però deve pur controllare: sua la casa, sua la responsabilità. Allora chiude gli occhi, e con un sospiro appoggia le mani sulla ringhiera. Sente delle risate arrivare dal marciapiede, tutti quei metri più sotto, e con uno slancio si affaccia. Niente. Soltanto un gruppo di ragazzini. I balconi dei vicini sono troppo lontani e non ci sono alberi su cui poter saltare: i suoi amici sono scomparsi nel nulla.
Torna dentro con le gambe che tremano. Deve chiamare la polizia. E se lo prendono per matto? La polizia, sì. E se lo accusano di rapimento? O di omicidio? Forse è meglio chiamare in ogni caso. Ci sono gli sconti di pena, se confessi. L’ha sentito in televisione.
«Pronto intervento, ci dica».
«Buonasera. Ecco, io… io non so come sia successo, ma avevo degli ospiti a cena e sono come scomparsi».
«Come “come scomparsi”? Sono usciti, mica?»
«Ma no, erano qui fino a un attimo fa e…»
«Non è che sono usciti a fumarsi una sigaretta?»
«Prima del gelato?»
«Che gelato?»
«Stavo per portare…»
(Quante combinazioni ci sono con crema, stracciatella, arachide tostata e pistacchio?)
«Mi dica il nome della via».
Gliela dice.
«Come si chiama?»
«Mi chiamo O – »
«Ok, senta. Mandiamo una pattuglia».
«Ma non le ho detto il mio nome».
«Se quello che dice è vero, non c’è tempo da perdere».

Di lì a un quarto d’ora si presentano due volanti della polizia: devono aver preso la vicenda terribilmente sul serio. Una volta in casa, iniziano con la carrellata di domande tipica dei film polizieschi – quanti eravate, che cosa è successo, lei chi è, da quant’è che conosceva la signora, aveva qualcosa contro il signore, ci dia uno stramaledettissimo motivo per cui dovremmo crederle. L’umore della stanza oscilla tra la sua tensione e la noia apparente con cui i poliziotti prendono appunti e scattano fotografie a tavolo, sedie, fornelli e tutto il resto. E sembra che gli esami preliminari siano sul punto di concludersi, quando qualcuno suona al citofono. Il signor O. non fa nemmeno in tempo a illudersi – magari i suoi amici hanno già deciso di fare ritorno – che uno dei poliziotti esclama: «Questo dev’essere il nostro collega».
«E così lei è il signor O.»
«In realtà il mio nome completo è…»
«Non perdiamoci in queste quisquiglie. A quanto pare i suoi amici sono scomparsi. Me li descriva».
«Certo. Allora, uno è pelato, uno è un capellone, poi c’è una bambina con i capelli biondi».
«Una bambina con i capelli biondi. Ok. E il quarto?»
«Il quarto?»
«Il quarto, sì. Al telefono ha parlato di quattro persone».
O. si prende la fronte tra le mani, il respiro tutt’a un tratto affannoso. Non riesce a distogliere lo sguardo dal piccolo cubo illuminato di verde che il detective ha appoggiato sul tavolo. Lo sta registrando. La temperatura della stanza inizia a salire. Il collega ha iniziato ad abbaiare ordini ai poliziotti non appena uscito dall’ascensore. Ha fatto prendere ancora qualche impronta digitale e poi ha preteso che il signor O. seguisse lui e un collega apparentemente molto riservato fino in questura. Per ulteriori accertamenti.
«Il quarto… faccio fatica a ricordarlo. È grasso, è magro? Forse è la sintesi di tutti e quattro, quello che meglio li riassume. È pelato con i capelli biondi tenuti lunghi sugli occhi. Eppure faccio fatica a ricordarlo, sì. E questa dimenticanza mi fa come dubitare di averlo mai conosciuto. Di aver mai conosciuto ciascuno di loro».
Il detective lo ascolta senza alzare gli occhi dal taccuino, e quando si accorge che O. ha interrotto il discorso lo incalza con un gesto della mano.
«Sto divagando. La sto annoiando, mica?».
«Cosa glielo fa pensare?».
«Sto divagando. Sembra più una seduta di psicoterapia che una deposizione. Non vorrei farle perdere tempo».
«Le conclusioni le faccio io. E poi sto scrivendo, no? La scrittura è terapia. Mi ascolti», e gli fa cenno di avvicinarsi, e abbassa la voce mentre O. si piega sul tavolo per ascoltare, «io e il mio collega, lì alla porta, non siamo dei normali poliziotti, se ne sarà accorto. Non dobbiamo andare a caccia di ladri di polli, domani mattina».
O. si volta a guardare il collega, ma quello se ne sta in silenzio ad aspirare fumo da una sigaretta elettronica.
«Siete… agenti segreti?»
«Oh, noi abbiamo molti nomi. Uomini in nero, psicopolizia, polizia del karma. A chi me lo chiede, mi piace rispondere che ci occupiamo di casi particolari. Casi come quello dei suoi amici. Ciò che facciamo ci descrive meglio di qualsiasi nome».

Terminata la deposizione, il detective chiede al signor O. se gradisce un caffè. Sì, un caffè è proprio quello che ci vuole, anche se sono quasi le tre del mattino. Chi ha il coraggio di tornare a dormire in quella casa?
La macchinetta è rumorosa, ma nell’atrio del commissariato sono tutti svegli, persino l’ubriacone ammanettato alla sedia di fianco al bagno.
«Un’ultima cosa», riprende il detective, mentre gli fa di nuovo segno di avvicinarsi. «La sua deposizione è finita. Ora siamo lei e io. Non sto scrivendo e non sto registrando. Un’ultima cosa, dicevo. Considerata l’eccezionalità del caso, se dovesse venirle in mente qualcosa – e intendo qualsiasi cosa – o dovesse dio non voglia aver bisogno di aiuto, non stia a chiamare la polizia. Chiami noi» Non ha ancora finito la frase che gli fa scivolare in mano un biglietto da visita. Il signor O. lo legge prima con le labbra e poi con un filo di voce.
«Carlo Vecchi, parrucchiere per signore?».
«È una copertura. Si limiti a chiamare quel numero e segua le istruzioni della voce».
«E questa via? C’è davvero un salone di parrucchiere?».
«Un’altra copertura. In realtà lì c’è un nostro contatto».
«Carlo Vecchi è il suo vero nome?».
Il detective sorride.
«Mi dica almeno il suo nome».
«L’ho dimenticato».

Un telefono squilla nella stanza buia.
Il signor O. apre gli occhi. Le pareti sono dipinte con i raggi di luce che filtrano attraverso le persiane. Dev’essere giorno inoltrato. Per fortuna che è domenica.
«Pronto?».
All’altro capo, una voce monocorde. «Buongiorno, signore».
«Chi parla?».
«La contatto per confermarle l’appuntamento dal parrucchiere di questa sera».
«Non capisco».
«Per quel taglio, sa? L’appuntamento dal parrucchiere. Carlo Vecchi».
Lenta la mente riemerge dal sogno, e ricorda. La deposizione, il detective in completo scuro. Gli scomparsi.
«Avevo capito che vi dovevo chiamare io, nel caso…»
«Si presenti questa sera alle venti e trenta all’indirizzo che c’è sul biglietto. Secondo piano. E non faccia storie»
E riattacca.

O. quella zona la conosce bene: ci lavorava uno dei suoi amici. Mentre cammina controlla di tanto in tanto il civico scritto sul biglietto, ma continua a dimenticarselo. Dov’è che lavorava? Coniugare i verbi al passato gli mette tristezza. Chissà cosa diranno i suoi colleghi, chissà chi metteranno al suo posto. Anche pensare che ci va così poco per essere rimpiazzati gli mette tristezza: in fondo crediamo sempre d’esser unici.
Una volta arrivato all’indirizzo del “parrucchiere” si domanda dove mai è stata quella bella casa coloniale in tutti questi anni. Conoscerà pure la zona, ma questa casa qui non l’ha mai vista. È protetta da una siepe ben curata e un cortiletto con delle gardenie in dei vasi di pietra scheggiati. Ha appena iniziato a curiosare tra i nomi incisi nell’ottone del citofono che il cancelletto si apre con un click.
Il detective, stretto nel suo trench d’ordinanza, lo raggiunge sul vialetto e gli allunga una mano.
«Grazie per essere venuto. È importante che ci sia anche lei».
La voce è la solita, ma le dita sono sudate: sta succedendo qualcosa, lì dentro.
«Ci sono novità, ispettore? Ha trovato i miei amici, mica?».
«Non sono un ispettore. E non ho trovato i suoi amici. Ma in questa casa, qui», e si gira a indicare le finestre adornate dall’edera, la porta color ebano, i mattoni sbiaditi, «in questa casa c’è qualcuno che può aiutarci. Una collaboratrice».
Il signor O. fa su e giù con il mento in segno di approvazione. C’è da esser contenti quando le forze dell’ordine si danno da fare.
«Bene, bene. Ottima cosa, la collaborazione. Cos’è, un’infiltrata?».
«Chi, la signora Bianchini?».
«La nostra collaboratrice, sì. La nostra talpa».
«In un certo senso. È una medium».

I corridoi e le stanza sono esattamente come uno se li potrebbe aspettare: specchi ossidati, cadaveri di candele sopraffatti dalla loro stessa cera collassata e fiori appassiti.
«La signora ha un certo gusto dell’antico, mi pare».
«Senta, gliel’ho già spiegato entrando. La signora Bianchini è una professionista esemplare, e mi aspetto che…»
«Va bene, va bene. Non dirò nulla. È che credevo che le medium…», il legno del parquet scricchiola sotto i loro passi, le finestre oscurate da spesse tende color amaranto, «…aiutassero i poliziotti soltanto nei film».
Il detective si ferma di fronte a una porta, il signor O. gli si fa di fianco.
«Signor O., gliel’ho detto. Io non sono un poliziotto. E il suo non è un caso normale. Le persone non spariscono nel nulla. Da qualche parte devono pur essere andate. E la signora Bianchini può aiutarci a trovarle. Senta. Non so lei che idea abbia sulle… sulle presenze. Ma esistono. Se non vuole credere a lei, creda a me. E per favore, per favore, una volta dentro non dica nulla di sconveniente».
«Per chi mi ha preso, scusi? Per un cafone?».
«Per un attimo sospenda la sua proverbiale incredulità e si limiti ad annuire».
«Proverbiale incredulità? Ma se mi conosce appena!».
«E soprattutto, umiltà. La signora è molto avanti con gli anni, e giustamente pretende rispetto. Si ricordi che ci sta facendo un favore».
«Può spiegarmi questa cosa dell’incredulità, per cortesia? Non capisco come sia saltato subito alle conclusioni, io non ho mai…»
Il detective lo zittisce con un dito. Poi guarda l’orologio, un vecchio modello in pelle di coccodrillo che mal si addice al completo scuro. Sono le venti e trenta.
«Entriamo nei personaggi».

La stanza segue l’arredamento della casa, e la signora Bianchini risponde allo stile della stanza: vecchia, vestita di scuro, immobile e profumata di fiori secchi. Li aspetta seduta al tavolo, in silenzio e con i palmi delle mani già aperti e in posizione.
«Signora Bianchini, eccomi di nuovo da lei. Questo è il signore di cui le ho parlato».
Il signor O. annuisce tentando di sorridere. Una volta ha letto che se si finge di sorridere, nel cervello si attivano comunque i recettori del buonumore. O qualcosa del genere.
La medium indica con un gesto del mento la sedia alla sua destra e quella alla sua sinistra, senza staccare le mani dal tavolo rotondo. «Non state lì in piedi».
Il detective prende posto, ma quando il signor O. sposta la sedia, sente che una forza la trattiene. C’è qualcosa, lì sopra. Un’entità, una presenza. Un peso.
«Madame, sulla mia sedia c’è un gatto».
Gli occhi gialli semichiusi, sul petto una macchia bianca a far da fiocchetto: sulla sedia, lo sguardo rivolto da qualche parte sotto il tavolo, un enorme gatto nero dorme composto.
«Si dia il caso che quella sia la sedia di Prodigio».
«Prodigio?»
«Il gatto si chiama Prodigio. E quella è la sua sedia».
«No, aspetti. Il gatto ha una sedia? Parteciperà anche lui alla seduta?»
«Ispettore, ma chi mi ha portato?»
Il detective si alza in piedi, con la fronte che inizia a sudare. «Madame, le chiedo scusa. Per il signore è la prima volta». Poi con uno sguardo dice al signor O. che se non va subito in cucina a prendere una sedia e lascia stare quel cazzo di gatto, la settimana prossima la signora Bianchini dovrà cercare il suo di fantasma, perché quant’è vero iddio stasera lo ammazza.

La cucina è la classica cucina dei vecchi.
Il piano cottura è incrostato dalle macchie di caffè, le ante dei mobili sono scollate e di un marrone che negli anni si è trasformato in beige.
Dentro, seduto a un tavolino, l’Agente Muto è talmente intento ad abbuffarsi di arachidi che quando O. gli si avvicina per prendere una sedia non alza nemmeno lo sguardo.

Tornato in salotto, il signor O. è costretto a orientarsi a tentoni, perché la signora Bianchini ha già fatto spegnere le luci.
«Su, si sieda e la smetta di fare tante storie».
«Qui va bene? Tra il detective e il gatto».
«Si sieda dove vuole, basta che si sbrighi. Gli spiriti non aspettano. Metta le mani sul tavolo, su. Le avvicini alle mie e a quelle del maresciallo».
«Devo tenergli una zampina?»
«Come, prego?»
«Al gatto. Devo tenergli una zampina?»
«Fingerò di non aver sentito questa domanda. Agli spiriti non piace che si alzi la voce. Ora stia zitto. E ascolti».

L’aria della sera è fredda di quel freddo che ti entra nei polmoni. È un inverno dei tempi andati.
«Prima di andare, vorrei dirle ancora due parole».
L’Agente Muto è già con la schiena appoggiata alla berlina in fondo alla strada. Si guarda intorno con fare annoiato, ma probabilmente sta tenendo d’occhio la situazione.
«Senta, ho già chiesto scusa un mucchio di volte. Era un rumore basso, continuo e profondo. Avrebbe tratto in inganno qualunque principiante. E poi non avevo mai sentito di un gatto che fa le fusa senza che nessuno lo tocchi. Chi lo sa, magari non erano solo fusa, quelle che ho sentito».
«Non è di questo che le voglio parlare». Il tono del detective è quello delle confidenze. Toglie la plastica da un pacchetto di sigarette, la butta per terra, ne tira fuori una.
«Lei fuma? No, certo. Non mi dica che è uno di quelli».
«Quelli chi?»
«Vegani. Cose così».
«Ora lei mi spiega il nesso tra veganesimo e tabagismo».
«Senta», risponde il detective, mentre estrae dalla tasca del trench il dado registratore. Ne sfiora una delle facce con un dito e tutto l’aggeggio si illumina di rosso. «Siamo lei e io adesso. Ha mai letto Il signore degli anelli
«Ho visto i film».
«Fa lo stesso. Non so se ricorda, ma a un certo punto Gandalf prende Frodo da parte, proprio come sto facendo io con lei adesso, e per metterlo in guardia contro Sauron gli dice… si ricorda cosa gli dice?»
Il signor O. si guarda attorno come se il vialetto o le siepi ben curate della signora Bianchini potessero fornirgli una risposta.
«L’anello vuol essere trovato. Ecco cosa gli dice. È un bell’aiuto, per Sauron, non trova
Ma qui, caro mio, la situazione è completamente diversa. La maggior parte della gente che scompare non vuol essere trovata. Per questo quelli come noi non escludono nessuna pista».

Dopo aver accompagnato il signor O. alla sua auto, l’ispettore si volta a guardare la casa. Chissà se le presenze che la infestano ci possono vedere, dall’altro lato degli specchi. Chissà se possono leggere i nostri pensieri come fondi di caffè. E sta per voltarsi, vuole tornare in centrale e poi andarsene a letto, quando sente il portoncino aprirsi con uno scricchiolio.
«Madame?».
La signora Bianchini è lì immobile, con uno scialle sulle spalle, a tenersi stretta nelle braccia.
«Ispettore».
«Le chiedo ancora scusa per il…»
«No, non è questo».
L’Agente Muto, in fondo alla strada, alza gli occhi al cielo e si accende l’ennesima sigaretta. Ma quanto parlano, questi.
«Cosa c’è allora?».
«È tutta questa storia. Non voglio di certo insegnarle il mestiere, ma… c’è qualcosa che non mi convince. Forse è tutto più semplice di quello che appare. Come se ne stessimo già parlando troppo. Se fosse un racconto direi che ci sono troppi dialoghi».
L’ispettore muove su e giù la testa mentre la ascolta. Capisce perfettamente quello che intende.
«Lei crede che gli amici del signor O. non siano mai esistiti, non è vero?».
«Questo lo dice lei, non io».
«E che il signor O. si sia inventato tutto per sopperire a una mancanza di affetto o qualcosa del genere».
«Questo lo dice lei, non io».
«Madame, stiamo vagliando tutte le ipotesi. C’è di mezzo anche la Scientifica. Hanno prelevato campioni biologici dalla posate e dai bicchieri. Cercano innanzitutto saliva. E capelli, unghie, peli. Cose che una proiezione mentale non lascerebbe su un tavolo».
La signora Bianchini gli tende una mano. Ed è tremula, tutta vene e ossa come quelle dei vecchi.
«Mi passi a trovare quando scopre qualcosa. Le preparo un tè e le faccio fare due parole con la sua cara mamma. È ancora una signora splen-di-da».

Gli appoggiano i risultati dell’esame della Scientifica sulla scrivania, e lui resta lì a fissarli per un po’ prima di toccarli, come se avessero le spine. Sono in una busta sigillata, e tutt’a un tratto le piccole operazioni necessarie ad aprirla – far scivolare la sedia con le ruote fino al tavolo, cercare il tagliacarte nel secondo cassetto, indossare gli occhiali – assumono le dimensioni di montagne insormontabili, diventano gigantesche.
«Questo caso mi farà impazzire».

La decisione di tornare sul luogo del crimine la prende d’impulso, senza pensarci, senza comunicarla a nessuno. Fa scorrere l’indice sulle targhette dei citofoni fino a trovare il cognome che sta cercando. E suona. E suona. E suona.
«Ma chi cacchio è?».
«Signor O. Apra. Sono Carlo Vecchi».

«Ispettore, sono quasi le dieci di sera, che cosa…»
«Da quanto tempo non vede quelle persone?».
«Avete degli sviluppi? Avete scoperto qualcosa?».
«Da quanto tempo non vede quelle persone?».
«Gliel’ho detto e ridetto. Da mercoledì sera, quando sono scomparsi».
«Da quanto tempo non vede quelle persone veramente
Il signor O. inizia a piagnucolare come se un bambino più grande gli avesse dato un pizzicotto.
«Perché non mi crede? C’era la tavola apparecchiata. C’erano le loro giacche. C’erano le loro forchette».
Il detective accavalla le gambe e si accende una sigaretta. Fuma quelle lunghe, quelle che si vedono nei film ambientati prima della guerra.
«Sono arrivati i risultati della Scientifica. Non è più come una volta, signor O. Quelli sono professionisti. Hanno analizzato la saliva sulle posate e sul bordo dei bicchieri e – le spiace se fumo? – hanno scoperto che il loro DNA è uguale al suo. Hanno scoperto che i suoi amici qui non ci sono mai stati, e che lei ha inscenato tutto».
Il signor O. si prende il volto tra le mani.
«Da quanto tempo è che non li vede?»
«Alcuni mesi. Ma è vero, sa? È vero che sono scomparsi».
«Senta, le ho detto…»
«Non mercoledì. E non qui. Ma sono spariti, glielo garantisco».
Il detective dà un colpetto alla sigaretta e fa cascare della cenere in uno dei vasi sulla credenza. Poi, come dovesse giustificarsi, aggiunge: «La cenere fa bene ai fiori».
«Ispettore, sono spariti».
«Lo sa che se va ai cento all’ora su una stradina e si schianta senza farsi niente e senza ammazzare nessuno non le fanno nemmeno una multa per eccesso di velocità?».
«No. Ma non ho nemmeno la patente».
«Signor O., non c’è indagine senza dolo. Hanno archiviato il caso. Dei suoi amici scomparsi non frega niente a nessuno».
Il signor O. piange più forte adesso, tira su col naso, e balbetta che gli dispiace, che forse se la merita, la galera, e che se il giudice deciderà di spedicercelo non si rivolgerà nemmeno a un avvocato, che tanto sarebbero solo soldi sprecati, sarebbero.
L’ispettore gli si avvicina e gli offre una sigaretta.
«Se ne fumi una. Le farà bene».
Quello se la mette in bocca con le dita che tremano e con lo sguardo urla E adesso che cosa facciamo.
«Signor O., sono le dieci di sera e il mio collega non c’è. Non sono qui in veste ufficiale. Loro avranno anche archiviato il caso, ma io non ho ancora finito. Si metta a letto, adesso. Si lavi i denti e faccia un bel sonno. Li troveremo, glielo prometto».
I due uomini si stringono la mano, si salutano, si augurano la buona notte. E quando la porta si chiude, il signor O. gira la chiave nella toppa, appoggia la fronte contro lo spioncino e sussurra: «E se non fossero loro a essersene andati? Se fossi io lo scomparso?».

Si danno appuntamento quella stessa domenica, su viale Martiri della Libertà. È un bello stradone dominato da una fila di castagni, alle porte del centro. Come da accordi, O. aspetta seduto a un bar, sorseggiando un cappuccino e fingendo di leggere un giornale, e quando arriva, il detective è talmente diverso da come è abituato a vederlo che subito nemmeno lo riconosce: al posto del trench indossa una vecchia felpa nera, e ha un paio di pantaloni di tuta e delle scarpe da jogging. In testa porta una parrucca bionda (o era quell’altra la parrucca?) e una di quelle fascette che usano gli sportivi con i capelli lunghi per non farsi andare la frangia sugli occhi.
Il detective prende posto al tavolino, e rivolto al dehors esclama: «Carmelino, ma come ti sei vestito? Guarda che prendo giusto un caffè al volo e poi andiamo a correre!».

Quando arrivano alla macchina – una vecchia Punto con il parafango traballante e dai colori sbiaditi dal sole – il detective gli chiede di indossare una di quelle mascherine che si usano per addormentarsi.
«Non mi permetterei mai di insegnarle il mestiere», ribatte il signor O., «ma non è un filino sospetta una macchina con dentro uno vestito da corsa e uno che dorme?».
Quello si fa una risata, ed è la prima volta che ride da quando è cominciata la storia degli scomparsi.
«Le svelo un segreto. I poliziotti controllano solo la persona alla guida».

Sfilano nel traffico per un tempo che il signor O. fa fatica a quantificare, da dietro la maschera. Sente clacson suonare, automobilisti imprecare contro semafori rossi, ciclisti e altri automobilisti che imprecano. Insomma, una domenica normalissima. E quando finalmente la Punto si ferma è un sollievo vedere di nuovo, ed è una sorpresa ritrovarsi ancora una volta di fronte alla casa coloniale.
«Detective, mi faccia capire: tutta questa messinscena per portarmi in un posto in cui sono già stato?».
«La premura non è mai troppa», gli risponde estraendo dalla tasca il cubo registratore, mostrandogli che lampeggia di rosso, «mia l’indagine, mie le regole».
«Non sta registrando, va bene. Ma al di là dell’assurdo teatrino della maschera e dei suoi vestiti da jogging, credevo che avessimo già appurato che medium e acchiappafantasmi non facciano al nostro caso».
«Signor O., questa roba è come la psicologia o la religione. Se non ci crede non funziona».

La trafila è la stessa della volta prima: il cancello che si apre con uno stridio, le raccomandazioni sul vialetto, le piante secche e le tende scure. Questa volta, però, la signora Bianchini è incredibilmente ancor più scontrosa. Si fa trovare in piedi con le luci accese e il gatto a zonzo, come se non avessero tempo da perdere dietro quelle castronerie. Trascina le sedie anziché sollevarle, non guarda nessuno negli occhi e soprattutto commette uno degli affronti più gravi che si possano concepire nel Bel Paese: accoglie degli ospiti prima di pranzo e non offre loro una tazza di caffè.
C’è qualcosa che non va, e dev’essere qualcosa di ben grave, visto che non solo se ne accorge il detective – del resto accorgersi delle cose è il suo lavoro – ma anche il signor O.
«Madame, forse io e l’ispettore, qui, siamo arrivati…»
«Lei!». La voce della medium, di solito pacata come quelle delle vecchine che vanno a messa ogni domenica, a un tratto si fa squillante e imperiosa. «Proprio lei parla! Che manco dovrei farla entrare. È capace che gli spiriti si offendono e mi tengono il broncio».
È un’esplosione improvvisa, come tutte le esplosioni del resto, e il detective ritiene di intervenire ponendosi fisicamente tra le medium e il signor O.
«Madame, le assicuro che…»
«Ma cosa mi assicura, lei! Lo sa cosa succede, caro il mio ispettore, se gli spiriti si offendono? Succede che io divento lo zimbello del quartiere. E perdo clienti. Ha idea di quanto costa l’affitto di una casa come questa? Non lo vuole sapere, mi creda».
Per tutta la durata dell’arringa Prodigio le vortica attorno senza tregua, ma non appena il silenzio torna a posarsi sulla stanza le si siede di fianco come a dire “e-adesso-come-la-mettiamo?”. Si sa, i gatti le sentono, certe situazioni.
«Ma si può sapere che cosa le ho fatto? È mica ancora arrabbiata per la scorsa seduta?».
«Lei! Lei non dovrebbe nemmeno starci, qui dentro, caro mio!».
«Ma cosa…?»
«Lei! Lei ha mentito, signor O. Cosa crede, che non lo venissi a sapere? E, soprattutto, credeva di ingannare loro?». Fa ruotare le mani verso i quattro angoli della stanza, come a indicare tutti i posti e nessuno in particolare. «Gli spiriti li fiutano lontano un miglio, quelli come lei. E ci si tengono alla larga».
Per far tornare la calma – elemento più che necessario a qualsiasi seduta spiritica – il detective impiega mezz’ora: rassicura la signora Bianchini (“da adesso in poi niente bugie, parola mia”), riconquista la fiducia del signor O. (“non potevo di certo non condividere con la Madame un’informazione fondamentale come i risultati della Scientifica”). Dà una carezza al gatto, e alla fine, quando sembra che gli animi – quelli dei vivi, s’intende – si siano un attimino placati, si gioca persino il jolly: «Madame, perché non ne parliamo davanti a una bella tazza di caffè?».

Quando chiudono le tende, spengono le luci e finalmente si siedono, è quasi mezzogiorno. E l’atmosfera è surreale a tal punto, con il detective vestito da jogging e tutte quelle grida fino a un minuto prima, che nessuno protesta quando Prodigio prende posto sul tavolo, proprio di fronte al signor O.
«Bene, cari i miei invitati. Possia
o cominciare».
Forse è la caffeina, forse l’adrenalina per la discussione, ma i cuori dei partecipanti battono all’unisono – bum bum bum – il respiro si fa affannoso, i rumori della strada si fanno distanti come la colonna sonora di un film lasciato in sottofondo. Il signor O. è scettico, naturalmente, ma ci prova, questa volta, ci prova davvero. Se non ci credi non funziona, si dice. E allora credici credici credici. Ma come si fa a convincersi dell’esistenza di qualcosa che non si è mai visto? Credici credici credici. Gli viene in mente un trucchetto che usa quando ha il suo cosino in mano, ma la pipì di uscire proprio non vuol saperne: sceglie un oggetto che gli sta attorno – il cordino dello scarico o l’angolo sbeccato di una mattonella – e si concentra su quello. Esci esci esci. Così la mente si distrae e non si concentra sul fatto che la porta potrebbe aprirsi da un momento all’altro. Sì, si dice. Questa potrebbe funzionare. Allora contravviene alle regole della seduta e apre gli occhi e la prima cosa che vede è quel gigantesco gatto nero con la macchietta bianca. Prodigio si passa la lingua sulle labbra, e se la passa anche lui come fosse davanti a uno specchio. Guarda la macchietta (eccolo, il suo bersaglio) e mentre la guarda quella si allarga, si allarga, si allarga, fino a diventare gigantesca: colora di bianco la stanza, colora di bianco la casa, colora di bianco tutto il quartiere. E lo sguardo fisso tra quei peli bianchi pensa:
Mi sembra di rimpicciolire
Come un puntino nero
Che si allontana
Scompare
Vola via.
Puff!

O. si perde dentro la macchietta e ritrova i suoi amici.
Cammina tra i peli e i peli sono alti come spighe di grano. Li sposta con le mani e sotto le dita sono soffici come nemmeno il gatto dal pelo più morbido del mondo potrebbe mai aspirare ad essere. Si sposta in quel campo immenso e per un secondo che forse è un’ora si dimentica della signora Bianchini, di Prodigio e dell’ispettore. Per un secondo si dimentica persino di se stesso. Poi arriva in una radura di peli più corti e li vede. Il cielo è bianchissimo, abbacinante, e c’è una minuscola altalena, un minuscolo cestino della spazzatura e dei minuscoli attrezzi per fare palestra. I suoi amici sono lì, ma quando il signor O. ci si avvicina vede che sono completamente diversi da come li ricordava: la ragazza è un ragazzo, quello senza capelli ha una lunga chioma bionda, quello con i capelli lunghi è pelato e il quarto è diventato un anziano con coppola e bastone da passeggio.
«Cosa sta succedendo?», si chiede il signor O. a voce alta, ma dalla sua bocca escono bolle anziché parole. «Cosa sta succedendo? Chi è questa gente? Chi sono io?»

Si avvicina agli scomparsi come volando, sospeso a mezz’aria tra l’odore di fiori secchi della stanza e i peli del gatto, e li vede ridere e schiamazzare. La ragazza che ora è un ragazzo e il vecchietto stanno facendo ginnastica appesi a testa in giù dalle sbarre, mentre gli altri due vanno avanti e indietro su un’altalena.
Non appena lo vedono arrivare interrompono quei giochi infantili e si guardano, indecisi, imbarazzati. Sono andati lì e non l’hanno avvisato. Nonostante tutto lo hanno riconosciuto, e non sanno che cosa fare. Neanche il signor O. sa che cosa fare: li ha aspettati per mesi. E poi li ha chiamati, li ha cercati, li ha pianti. Ha persino organizzato quella ridicola messinscena della sparizione, con tanto di coppe gelato e tutto il resto. Per mesi non ha saputo come comportarsi, ma adesso, qui tra questi peli e queste altalene, getta un secchio giù nel pozzo del suo coraggio – un cunicolo oscuro che mai e poi mai credeva di avere – e si dice «Ora o mai più, ragazzo. Ora o mai più».

«Vi aspettavo per cena», sussurra. E poi, ancora: «Ho comprato il vino. Ho messo Kind of Blue di Miles Davis. È uno dei migliori dischi jazz della storia, l’ho letto su Internet. Avevo preparato le coppe gelato, ma voi non siete venuti».
Il gelato, sì. Il gelato che si scioglie mentre racconta al detective la storiella che si è preparato. Crema, stracciatella, arachide tostata e pistacchio. Nelle foto dei poliziotti i cucchiaini galleggiano nell’acqua colorata che una volta era crema, stracciatella, arachide tostata e pistacchio. Quante combinazioni – e improvvisamente sa la risposta. Improvvisamente ha capito.

1 × 2 × 3 × 4

Il ragazzo che era una ragazza gli si avvicina e tenta di sfiorargli una gancia, ma subito il biondo, in piedi vicino alle sbarre, dà un colpo di tosse e quello ritira la mano. È come se fossero legati, capisce il signor O. Come se avessero un unico cervello in quattro. Il pensiero lo diverte come si divertirebbe un bambino a tirare una caccola alla bambina di cui è innamorato. Un cervello in quattro, sì. E dire che c’è cascato, nella loro trappola. E dire che l’hanno fatto fesso. Ma adesso ha capito. Uno per due per tre per quattro: era così semplice. Eccola, la soluzione.
Si avvicina al ragazzo che era una ragazza e gli appoggia una mano sulla spalla e la spalla inizia lentamente a svanire come lettere cancellate da una lavagna.
«Forse anziché aggiungere vino, gelato e musica jazz dovevo togliere».
«Togliere?», gli rispondono in coro. Un cervello in quattro, una bocca in quattro.
«Togliere, sì. Via i piatti, via i bicchieri, via gli asciugamani per gli ospiti».
Il cielo si rannuvola. Gli scomparsi si parlano sopra, litigano, urlano, si spingono e infine spariscono, ma per davvero adesso, un pezzetto alla volta. Tra i peli della macchietta all’improvviso prende a soffiare un forte vento, e tra le folate e quei nuvoloni il signor O. – finalmente da solo – lo fa in fretta il calcolo, questa volta: sta per arrivare un temporale. Cade una goccia, ne cadono due, e in un attimo lo scroscio della pioggia copre il cigolio dell’altalena, il silenzio degli attrezzi e i suoi stessi pensieri. E sente i tuoni, e sopra ai tuoni la voce della signora Bianchini che fa:
OOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO

Si sveglia steso sul tappeto del soggiorno, tossendo e gridando qualcosa a proposito di un gelato che si scioglie e un’altalena.
«Si calmi, si calmi! Detective, mi passi dell’altra acqua, presto!».
La voce della signora Bianchini trema come tremerebbe la voce di una vecchina non avvezza ad apparizioni, porte che cigolano e tavolini svolazzanti.
«Si calmi o le prenderà un colpo!».
«Sono calmo», dice. E si asciuga il volto e il collo con la manica della camicia. «Ma ho beccato brutto tempo».
E sviene di nuovo.

«Secondo lei subirà dei danni permanenti?».
«Macché danni e danni. Vedrà che adesso si riprende».
«Prima però si è spaventata anche lei. Aveva una faccia».
«Lo credo bene. Ha sentito come gridava? Sembrava un ossesso».
«Chissà se li ha incontrati».
«Ssst. Ecco che si sveglia».

Il signor O. si tira su a sedere e si sistema la copertina sulle ginocchia.
«E questa da dove salta fuori?».
«Tremava tutto e Madame è stata così gentile da mettergliela addosso mentre – ehm – dormiva. Come si sente?».
Assembla i ricordi dai volti preoccupati della medium e del detective. Le altalene, il temporale e gli scomparsi. Getta via la coperta e salta in piedi.
«Ehi! Quella l’ha fatta a mano la mia trisavola!».
Il signor O., in piedi di fronte al divano, sembra più alto e persino più magro. Il detective gli si avvicina per squadrarlo con il suo occhio da poliziotto. Avesse avuto con sé la macchina fotografica probabilmente gli avrebbe scattato una fotografia.
«Li ha trovati, non è vero? Li ha visti?».
«Sì. Erano diversi, ma erano loro. Erano lì».
La signora Bianchini, raccolta la copertina, risponde guardando un punto lontano fuori dalla finestra.
«È sempre così. Quelle erano le loro anime viste attraverso la sua».
Prodigio esce da dietro al divano e si struscia sulle gambe dello strano ospite che a un certo punto si è messo a gridare. O. allora si inginocchia e gli gratta la macchietta con due dita.
«Signor O., cos’è successo tra lei e quelle persone?».
Prodigio inarca la schiena, tira la testina all’indietro e chiude gli occhi. È così raro che si faccia toccare da un estraneo che ci si dovrebbe scrivere su un racconto a sé.
«Abbiamo fatto pace».


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